sabato 12 dicembre 2009

Il Nobel conteso

E veniamo al bestiario di sinistra con le sue inconcludenze, le confusioni, la logica binaria che spesso contraddistingue tanto la classe dirigente (o quel che di essa rimane dopo la sonora sconfitta del 2008) quanto i rivoli sparsi del suo elettorato, gli “esuli” come li chiama Diamanti, che non votano o votano con il naso tappato, perché orfani di un punto di riferimento politico, che si occupi della loro rappresentanza.
Sto per dire cose che mi renderanno antipatica anche agli amici, quindi metto le mani avanti: in questa massa “liquida”, eterogenea mi colloco anch’io, con tutto le incertezze e le oscillazioni del caso. Non voglio far la “maestrina” e indicare soluzioni, anche se mi permetto qualche giudizio, pratica, a mio avviso, di per sé né scandalosa né derogabile (bisogna, al dunque, pur dire cosa si pensa per dar vita ad una discussione).

Parto da qualche breve antefatto per inquadrare il mio punto di vista, che si delinea, anche per me, non come un vero e proprio ragionamento, piuttosto come una procedura indiziaria, il profilarsi di dubbi e perplessità a partire da prove marginali, piccoli tasselli che a poco a poco compongono un quadro.

Quando Rossi e Turigliatto minacciarono di far cadere il governo Prodi, una maggioranza che si reggeva per un pugno di voti al Senato, sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero, ricordo che mi sembrarono pazzi, in preda ad un utopismo onirico che li collocava fuori della realtà. Roba da delirio mentale, totale perdita di rapporto col mondo, di sensibilità al contesto (interno ed estero), al quadro storico. Soprattutto nessuna dimestichezza con la sfera politica, con questioni come il diritto internazionale, i vincoli diplomatici, il gioco di equilibrio di opportunità strategiche (e non tattiche) che essa comporta, il bisogno continuo di riflessione su temi che non si possono liquidare con una filosofia delle quattro parole, “no alla guerra senza se e senza ma”, ideale di per sé nobile, che andrebbe promosso (concretamente) a livello sociale, ma politicamente vuoto.

In generale chi fa politica (o se ne interessa) ha il dovere di interrogarsi su questioni come la guerra, sulle condizioni che la giustificano come extrema ratio, sui modi possibili per evitarla e sull’equità di tali alternative. Non può semplicemente puntare i piedi e dire no. Ha sbagliato mestiere. Piacerebbe a tutti che la guerra sparisse con un gioco di parole, ma un po’ di sano realismo politico insegna che il pacifismo da solo non basta. Lascio parlare Bobbio, che certamente lo spiega meglio di me. “Se tutti gli stati del mondo disarmano tranne uno, questo diventa il signore della Terra. Quando si entra nella sfera politica, non si può prescindere da un minimo di realismo. Il disarmo unilaterale favorisce i violenti. Questo è il problema che i pacifisti radicali devono sciogliere: sino a che tutti gli uomini, dico tutti, non saranno non violenti, non solo la non violenza non otterrà il proprio scopo, ma rischia di rendere un servizio ai violenti, per i quali è più facile dominare un mondo di non violenti che un mondo di altrettanto violenti come loro. Il paradosso della non violenza è che incoraggia la violenza dei violenti.” Questo, per me, è un dato di fatto (non il solo per fortuna a comporre la sfera del politico). Ora, una forza che si vuole politica, come Rifondazione, può semplicemente liberarsi di esso, non elaborare la questione in contesto, dandola per risolta in via di principio, “senza se e senza ma”, una volta per tutte? Non credo.

Quando Obama si è candidato alle presidenziali non mi è piaciuto subito. Cresciuta a pane e dietrologie, politicamente diffidente per natura (il che spesso si è rivelato cosa buona), mi insospettiva l’ondata di entusiasmo collettivo per un tizio troppo patinato e telegenico per essere vero. Bello come Denzel Washington, osannato come Marthin Luther King, molto sospetto per me. Alla lunga, però, Barack mi ha convinto. Non sono un’obamiana fanatica, ma riconosco che è intelligente e in gamba, parla chiaro, persegue obiettivi condivisibili, ha effettivamente rinnovato il panorama politico americano e in parte anche quello sociale, risvegliando un interesse per il dibattito pubblico, collettivo, intorpidito da tempo. Rappresenta una svolta (sia pur limitata) anche per lo scenario internazionale, rispetto ai piani dell’amministrazione Bush, che sulla guerra avrebbe insistito ancora a lungo, esportandola anche altrove. Due le tappe decisive per la crescita del mio personale gradimento nei suoi confronti: il discorso all’Università del Cairo, diretto al mondo islamico, e quello al Congresso, sulla riforma sanitaria. Tutte e due le volte Mr. Obama mi ha letteralmente incollato al video: non è stato reticente, ha argomentato con straordinaria efficacia, ha prospettato soluzioni realistiche, ha evitato fronzoli e melassa, non ha lesinato critiche pungenti ed è stato capace di mettere (quanto meno provvisoriamente) tutti d’accordo. Ha strappato applausi su entrambi i fronti, ragionando come non si sentiva da tempo. In poche parole molto meglio di quel che ha fatto Denzel nei suoi film, impensabile, fino a poco tempo fa, nel mondo reale.

Tuttavia si tratta pur sempre di discorsi, di parole e poco più. Come recita l’adagio “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Bisogna stare in guardia e non lasciarsi prendere da facili entusiami. E qui arriva il Nobel sulla fiducia, imprevisto, immaturo, immeritato. Concordo, anche se bisognerebbe ricordare che Obama non se l’è assegnato da solo. In ogni caso le cerimonie e i festeggiamenti per il premio s’incastrano singolarmente (sarebbe meglio dire cozzano, fanno a pugni) con la decisione di inviare considerevoli rinforzi in Afghanistan, altri 30.000 uomini nei prossimi mesi, il che tinge tutto di un alone surreale. E anche su questo sono, in parte, d’accordo.
Ma qui scatta il rovesciamento e cominciano a fioccare da più parti a sinistra (in Italia s’intende) critiche rancorose tra quanti un tempo erano, per lo meno, fiduciosi, se non proprio fan. Obama è un traditore, una marionetta, un imbroglione come gli altri, un bluff.
Per me la questione diventa in tal modo ideologica, irriflessa, inceppata dalla logica binaria delle grandi alternative (rosso o nero, tutto o niente), capace solo di slogan e poco più. Che il Nobel sia immeritato è un fatto (chi legge “Doonesbury” ne ride da un po’ in mezzo mondo). Che Obama non sia il salvatore dell’umanità, che il mondo, all’indomani della sua elezione, non si sia improvvisamente trasformato (e in meglio), che il presidente degli Stati Uniti si muova all’interno di vincoli precisi, operando in un contesto, pregresso, predeterminato e da lui, in buona sostanza, indipendente, è un altro fatto.

Il che ci riporta alla questione della guerra in Afghanistan, che è poi il motivo principale delle critiche a lui rivolte. La guerra al momento è un grande fallimento, il rapporto del generale Petraeus parla chiaro. Non avrebbero dovuto aprire un altro fronte in Iraq, distraendo forze da lì; così i talebani hanno ripreso il controllo di gran parte del territorio, applicando ritorsioni sommarie contro i civili inermi, i traditori e le traditrici che si sono messi in fila per votare o per andare a scuola (da stragi e attentati a ripicche più “fantasiose” e sadiche, come lo stupro o l’acido in faccia). Il governo locale è corrotto e per niente autorevole, incapace di garantire diritti minimi alla popolazione locale, quali sicurezza, istruzione o sanità. La ricostruzione non è neppure iniziata. L’esercito americano, pochi uomini distribuiti a macchia di leopardo, con tecnologie fin troppo grandi e ingombranti per non essere bersaglio di imboscate, così può veramente poco contro l’agile ed esperta guerriglia talebana. Questo lo scenario che fa da sfondo alla decisione di Obama. Forse si avvia verso un nuovo Vietnam, ma certamente non può non tener conto di questo quadro.

Si può discutere a monte della scelta di far guerra all’Afghanistan all’indomani dell’11/09. Certo non siamo andati lì per scopi umanitari, per filantropia o amor di giustizia. Ci sono enormi interessi dietro, è probabile che l’attacco fosse pianificato da mesi, molto prima del crollo delle due torri. Possiamo riesaminare il caso dalle più svariate angolazioni, ricostruire l’ordine degli accadimenti, rivedere cronologia e scenari, scrivere una storia più vera. Ma l’argomento contro le “ragioni” della guerra di Bush è davvero così decisivo per determinare cosa fare in questo momento? O la situazione che emerge dai rapporti (non soltanto quelli governativi ovviamente) non è comunque preoccupante, degna di analisi, tanto da parte della politica internazionale quanto di quella nostrana e dei cittadini stessi, specie quelli politicamente attivi, come ho l’illusione di credere siamo a sinistra? Non sarebbe il caso di abbandonare qualche formula affrettata e cominciare a ragionare sui fatti?

Con questo non voglio dare ragione ad Obama, finendo con l’essere più realista del re. Semplicemente credo che prima di sostenere che il ritiro sia l’unica strada, perché siamo di fronte ad una sporca guerra, che in quanto tale è sempre ingiusta…insomma prima di fare astrazione, parlando in generale e buttandola, di fatto, in casciara, dobbiamo discutere del caso concreto. E allora bisogna davvero impegnarsi per dimostrare che il ritiro, adesso, è “più giusto”, moralmente e politicamente, producendo argomenti solidi a sostegno di questa tesi.
Io ho molti dubbi che una tale impresa riesca, non ho soluzioni e l’intera faccenda mi sembra un guazzabuglio. Sbagliata (e in malafede) la scelta di Bush, poco convincente l’idea di dire ora “Ci siamo sbagliati, abbiamo distrutto qua e là, non facciamo in tempo a rifare strade, ponti e ospedali, vi lasciamo nelle mani di amabilissime personcine, quali sono i talebani, con qualche calcinaccio e molta miseria.”
Con tutto questo sproloquio voglio soltanto suggerire alla “sinistra a sinistra”, a Rifondazione e agli “esuli”, di tornare a confrontarsi con il mondo reale, che spesso è problematico, talvolta (per fortuna non sempre), specie in relazione a cose complesse come la guerra, tragico e irrisolvibile, prima di passare agli schemi, alle sintesi e ai rovesciamenti. Prima di cedere alla tentazione degli slogan, alla rapida trasformazione degli amici in avversari di paglia, operazione che spesso fa il gioco del nemico reale. Insomma di ri-appassionarsi alla politica, di lavorare di immaginazione, senza fermarsi mai ai luoghi comuni, alle frasi fatte, anche quando le abbiamo fatte noi. I confini del “giusto” si spostano di continuo: i principi sono importanti, ma si applicano sempre in contesto.

venerdì 11 dicembre 2009

L'Europa che non c'è

Dopo gli improrogabili impegni di politica estera, che lo hanno portato ai 4 angoli di mondo, dall’Arabia Saudita alla Bielorussia di Lukashenko, e ne hanno legittimamente (?) impedito la presenza in aula, in quei tribunali che lo attendono da tempo ma in cui non ha nessuna intenzione di comparire, Berlusconi sferra l’ennesimo attacco agli organi di garanzia e controllo del nostro povero ordinamento democratico dinanzi ad una platea internazionale, il congresso del partito popolare europeo in corso a Bonn.

Poche le novità per noi italiani, che in 15 anni ci siamo più che abituati alle litanie sui giudici comunisti, l’uso strumentale e politicizzato dei processi, l’avvelenamento culturale e mediatico di cui è responsabile certa sotto-cultura di sinistra, a cui piace enfatizzare inesistenti legami tra mafia e politica, da ultimo attraverso inutili fiction come “La Piovra”, i cui autori andrebbero “strozzati” per il clima di sospetto e le falsità che hanno messo in circolazione. Tutti argomenti, peraltro, non nuovi, già avanzati da illustri predecessori quali Totò Riina e Michele Greco, che pure si scagliava contro i “filmi” come “Il Padrino”, vera fonte di corruzione e di ogni male. Quel che si può dire è che ancora una volta Berlusconi non mente, non si nasconde né si sottrae. Non vuole andare a processo, ritiene che il consenso di cui gode lo esoneri da questi fastidi, è pronto a cambiare la costituzione, anche da solo se necessario, e sa che la sua maggioranza, per quanto lacerata, saprà scendere a patti. Fini non lo impensierisce, anche questo è chiaro. Il botta e risposta di queste ore lo conferma. A Gianfranco Berlusconi fa sapere che non deve chiarire un bel niente: è stanco, furioso, scatenato, non sente ragioni ed è pronto a tutto.
Che la situazione sia delicata e pericolosa, come mai prima d’ora, è evidente. I nodi stanno venendo al pettine, impossibile derogare ancora il faccia a faccia con i giudici, schivato fin qui con strumenti ad hoc non più sufficienti.

E qui entra in ballo l’Europa.
Il vero e proprio coup de theatre del nostro istrione, l’unica novità rilevante delle ultime dichiarazioni, trite e ritrite nei contenuti, è il contesto internazionale in cui sono state proferite. Il che suona, ancora una volta, come un sinistro avvertimento sulla serietà delle intenzioni che le animano. Le reazioni a caldo? Sorrisi imbarazzati, risate per l’uso di espressioni un po’ forti, che hanno creato qualche problemino agli interpreti, applausi divertiti, un “no comment” della Merkel, una difesa d’ufficio del presidente del Ppe Martens, incardinata proprio sull’argomento della maggioranza e del consenso di cui gode Berlusconi.
In poche parole la solita reazione timida e deludente, che sembra condannare la politica europea ad una navigazione in acque basse, stagnanti, in cui conta più l’aderenza ad etichette di maniera che l’elaborazione di norme e principi comuni. L’Unione Europea è un organismo internazionale che non decolla, impantanato in questioni di mera ragioneria, che nessuno, in realtà, vuole far decollare. È possibile che la politica estera di un singolo stato, come l’Italia, sia così svincolata dagli orientamenti comunitari? È possibile che Berlusconi dichiari in Arabia Saudita che la vita parlamentare è faticosa, spossante, talvolta inutile, che lodi un leader come Lukashenko per il consenso popolare che ha saputo meritare, senza che questo provochi alcun pronunciamento a livello europeo? Ed è infine possibile fare discorsi come quello di ieri, infangare i principi e le istituzioni di uno stato di diritto (di qualsiasi stato di diritto), minacciare soluzioni estreme non previste dagli ordinamenti costituzionali, personalizzare un dibattito che avrebbe dovuto essere istituzionale ed internazionale al tempo stesso, senza che questo provochi una reazione un po’ meno ambigua e reticente delle risatine e dei no comment?
Il tempo è passato, l’Unione europea ha organi ufficiali, sedi, protocolli, ma è ancora un ircocervo, un animale strano, che non si sa bene come viva e a cosa serva. Ogni tanto qualcuno, che so un giornale, l’Economist, si scandalizza per la situazione italiana e prende le distanze, ma a livello istituzionale tutto tace. Viene il sospetto che, in fondo in fondo, Berlusconi piaccia anche all’estero, proprio come a Churchill Mussolini stette a lungo simpatico.

giovedì 12 novembre 2009

Stefano Cucchi o della malvagità del banale

Quando nel 1961 Hannah Arendt cominciò a seguire, come corrispondente per Il New Yorker, il processo ad Adolf Eichmann in corso a Gerusalemme, non poté non registrare quel che vedeva: un uomo qualunque, un mediocre nel senso di medio, non uno brillante, ma nemmeno uno stupido e neppure dannatamente cattivo, un tipo normale. Un esemplare comune di un’umanità banale, uno dei tanti che contano poco, non decide le regole del gioco, ma vi si adegua alla perfezione, persino più di quanto gli è richiesto. Osservanza stretta e rigorosa che non discende da intima adesione, come nel caso del mistico o del fanatico, ma da imperturbabile, serena, olimpica incapacità di riflettere sul peso delle proprie azioni.
- Il “come” era comandato, il “che cosa”, beh, non erano fatti miei.
Questa la strategia difensiva di Eichmann e laddove molti intellettuali gridarono allo scandalo, negando ogni parentela con quel “mostruoso” omino, la Arendt, invece, si fermò a guardare, concludendone che quel signor nessuno ci somiglia. Aveva semplicemente smesso di pensare a quel che faceva, alle conseguenze delle sue scelte e delle sue omissioni, alle connessioni tra regole valide in certi contesti - la famiglia, gli amici, una buona reputazione sociale - e sfere di vita separate come il lavoro, per cui si dà il caso che uno si occupi della deportazione di massa di migliaia di persone e lo faccia bene, senza troppe domande. Certo il nazismo aveva concepito e predisposto regole aberranti, ma senza questi zelanti esecutori non avrebbe potuto portare a termine il suo progetto delirante e mortifero. Soprattutto quando questa narcolessia della ragione diventa prevalente, impedito il sorgere di ogni dubbio, messa a tacere ogni critica con un semplice gesto, un tratto di penna, “sono solo fatti miei” o “non sono fatti miei”, vuote formule rassicuranti dentro cui nascondersi, tane o trincee per battaglie quotidiane, non c’è regola, ordinamento, principio, per quanto equo e opportuno, che tenga.
Da quando è morto Stefano Cucchi non smetto di pensare a quanta gente ha incontrato. Non voglio in alcun modo ridimensionare le responsabilità, penali (degli aguzzini di Stefano e di quanti hanno avuto un ruolo in questa sporca faccenda) e politiche. “Casi” come questo non sono affatto casuali, gli abusi di potere e l’impunità delle forze dell’ordine, la solidarietà ambigua e omertosa tra istituzioni, che invece dovrebbero controllarsi a vicenda, sono purtroppo la regola in questo paese malato. Eppure quel che davvero mi incuriosisce e mi inquieta in questa storia è questa folla di personaggi (persone solo in certi contesti, come il vecchio Eichmann) con cui Stefano è entrato in contatto, con uno sguardo o affidando loro qualche richiesta, fiducioso che qualcuno (un essere umano?), prima o poi, lo stesse a sentire.
Il magistrato, troppo occupato per poter alzare il naso dalle sue scartoffie, per notare i lividi o il padre di Stefano, presente in aula, una “prova evidente” che il ragazzo non era un vagabondo, un “senza fissa dimora”, che i domiciliari magari si potevano valutare (tralascio al momento considerazioni sullo scenario che si apre per quelli che casa e famiglia non ce l’hanno per davvero e che se muoiono, non protesta nessuno).
L’avvocato d’ufficio che saluta gli sbirri, e no, lui no, non vuole rogne. Che ne sa dei lividi, c’erano, non c’erano? Del collega segnalato da Stefano non ne ha mai sentito parlare, e poi cosa avrà mai più di lui? “Il tribunale è un brutto ambiente, lasciatelo dire da uno che ne ha viste. Bisogna chiudere un occhio e sgomitare, sennò ti mangiano”.
Il primario inavvicinabile, che non ne vuol sapere, ha dato le sue direttive, “moduli chiari, mi raccomando, tutto registrato a modo. Occupatevene voi, io passo prima di smontare”.
Gli infermieri che sbuffano lamentandosi: “dice che non mangia fino a quando non parla col suo avvocato. Deve ancora firmare, ricordamelo. A proposito hai visto i turni? Quella befana come al solito s’è sistemata bene”.
I piantoni in portineria, stanchi per definizione, che confabulano, con la mano sul citofono, biascicando per non farsi scoprire da chissà chi: “ci sono ancora quelli di ieri, ma non c’ho voglia di andare di nuovo in reparto. Ci sono appena stato.” “Ma digli che non hanno il permesso, di andar dal giudice e di tornare domani”.
Non ho le prove, ma non deve essere andata troppo diversamente da così. Certo c’è qualcuno che picchia fino a uccidere, che è colpevole e che dovrebbe essere processato. Poi c’è la schiera, sempre più numerosa, dei solerti cooperanti, col loro brusio di fondo indecifrabile, la beata ottusità che li contraddistingue, e ancora una volta un muro, a dividere un ragazzo che sta morendo, di fame e di sete oltre che di botte, dagli unici che saprebbero prendersene cura.

venerdì 9 ottobre 2009

La democrazia dell’applauso

La corrispondenza d’amorosi sensi tra Silvio e il suo elettorato non conosce esitazioni, neppure di fronte a scandali e sentenze. Le polemiche serrate spingono, semmai, la base a far quadrato attorno al premier, vittima di chissà quali complotti. Il singolare fenomeno si sta rivelando un’arma a doppio taglio per il dibattito interno allo stesso pidielle, già gravato da grosse ipoteche, a partire dalla mancata elezione collegiale del segretario. E così nonostante i segni di nervosismo - le insofferenze di Fini, i bollori estivi di Miccichè e Prestigiacomo, le prime timide manovre di palazzo - al dunque bisogna restare compatti a costo di ingoiare qualche rospo. D’altronde, da questa situazione, anche gli scettici qualche cosa ci guadagnano. Senza troppi sforzi fanno di necessità virtù e trasformano la devozione popolare, che per altri versi gli è d’ostacolo, in una clava da agitare contro l’avversario. Dubbi sulla legittimità dei respingimenti? Contestazioni sullo scudo fiscale? Perplessità sull’economia creativa (e un po’ vaga) di Tremonti? Preoccupazioni per scuola e ricerca? Prima o poi ti senti dire che “loro hanno il consenso”, che “la gente li ha votati”.
Il premier e i suoi fedelissimi fanno di più. Invocano la piazza per contestare sentenze di tribunali civili e consulta, si richiamano al nuovo modello di “sovranità popolare” a cui vogliono ispirarsi, per il quale, come spiega Alfano, “chi vince governa”, probabilmente al di sopra e al di là di vincoli giuridici e costituzionali, retaggio di un’epoca conclusa. Il consenso sembra esonerare i rappresentati di governo dalla giustificazione pubblica dettagliata delle proprie scelte. È un argomento buono per tutte le stagioni.
Soprattutto il “consenso” e il “consenso sul consenso”, come strumento dialettico decisivo per risolvere il confronto, si sono potuti formare senza che fosse necessario colpire lo stato di diritto, come nei regimi veri e propri. Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, che non sappiamo ancora definire con chiarezza. Democrazia autoritaria? Non c’è accordo sul nome. Quel che è certo è il ricorso al carisma e alla forza del numero a discapito del dibattito ragionato, del rispetto di regole e valori condivisi, fissati dal nostro ordinamento.
È pur sempre democrazia? Ho qualche dubbio.
Una volta gli stessi partiti diffidavano dei personalismi, tentando di arginarli al proprio interno. Macchinoni ingombranti, a volte ingessate per l’eccessivo rigorismo procedurale, le formazioni politiche di un tempo erano piuttosto vivaci tra correntoni, vertenze, mozioni ed estenuanti sedute di congresso. I segretari di partito duravano poco e non avevano vita facile.
Non sempre tutto questo è stato un bene, ma bisogna pure ricordare che, in molte occasioni, l’alto livello di discussione interna li ha aiutati ad auto-emendarsi, una pratica che le democrazie dovrebbero incoraggiare e che, invece, in Italia è in declino.
Un lontano antecedente di questa odierna, straripante, tendenza, una prima concessione al potere carismatico del capo, sembrerebbe l’elezione per acclamazione di Bettino Craxi a segretario del partito socialista, nel congresso di Verona del 1984. Qualche giorno dopo Bobbio, socialista certamente non asservito a strategie di partito, battitore libero guardato con diffidenza da liberali, comunisti e compagni di partito, scriveva sulla Stampa un suo editoriale, “La democrazia dell’applauso”, commentando l’episodio.
Diceva Bobbio “l’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi dell’elezione democratica (…). L’acclamazione, in altre parole, non è una elezione, è un’investitura. Il capo che ha ricevuto un’investitura, nel momento stesso in cui la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua ‘missione’”. E continuava, infuocato, richiamando l’attenzione sulle regole del gioco democratico, illustrandone la logica e il significato. Quel giorno, leggendo il giornale, un altro socialista si trovò d’accordo. Prese il telefono e chiamò Bobbio. Rispose sua moglie, non era in casa. “Sono il presidente Pertini, glielo dica, i suoi giudizi sono anche i miei.”
Qualche anno dopo Bobbio ebbe qualche problemino anche con Berlusconi.
La sensibilità politica di questi vecchi, la loro raffinatezza analitica, la capacità di intervenire al primo segnale d’allarme, getta una strana luce sul lassismo e l’indifferenza con cui, invece, è potuto passare il principio che il consenso fosse la regola aurea, non soltanto per le elezioni di un segretario di partito, ma, più in generale, per la discussione pubblica stessa.
Cassandra non viene mai presa sul serio.

Michel Houellebecq, Le particelle elementari

Le vite parallele e diversissime di due fratellastri, cresciuti senza conoscersi, accomunati soltanto dall'abbandono della madre, una donna bella ed egocentrica, che fagocita ogni tipo di anti-conformismo e di sperimentazione sessuale post-sessantottina, in un individualismo erotico-sentimentale che non conosce limiti, nemmeno quelli della propria distruzione.
Paragonato alle voci dissacranti e corrosive della letteratura americana - Roth, De Lillo e Auster - Houellebecq è persino più bravo nella costruzione del racconto, un ordito complesso, in cui rientrano questioni diversissime - la storia del nostro secolo, specie dopo i rivolgimenti culturali del '68, l'analisi sociale, la meccanica quantistica e gli scossoni, scientifici e metafisici, che essa ha provocato nell'attuale visione del mondo - tutte maneggiate e tenute insieme con grande cura.
Peccato per gli scivoloni moralistici, le fascinazioni idealistiche che vorrebbero talvolta correggere la storia, il sovrapporsi di un rancore oscuro e privato che trasforma il narratore in un fustigatore di costumi, colmo di bile, lontano dal sereno distacco dell'ironia.
E così sembra che Houellebecq sia più interessato a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, a sistemare una faccenda privata...

Simonetta Agnello Hornby, La zia marchesa

Un libro per stomaci capaci, per famelici ingordi pronti alla grande abbuffata.
Fine Ottocento, Sicilia aspra, calda, selvaggia e desolata, come lo sguardo di Amalia, la balia di Costanza, la “criata” di casa Safamita, che trascorre i suoi giorni lenti, faticosi e sempre uguali incastrata nelle grotte della Montagnazza insieme a sua nipote, Pinuzza. Unico passatempo il racconto degli anni trascorsi a servizio, a tirar su quella bambina strana, rossa di pelo, spuntata fuori da non si sa dove, al cui destino si legano le sorti di un’intera famiglia, generazioni di “padroni”, nobili oziosi e indolenti, abituati a comandare, scalzati - poco alla volta, ma inesorabilmente - dai nuovi potenti, politici e mafiosi, con cui, per sopravvivere, bisogna scendere a patti. Sullo sfondo, caparbio, ostinato, il colpo d’occhio degli ultimi, il fatalismo rassegnato di chi sa che tutto cambia per rimanere uguale. Le increspature di superficie non coinvolgono gli abissi a loro assegnati e con questa consapevolezza, appiccicata addosso, osservano le vicende dei padroni, i crucci e gli affanni di quei pupi in crinolina, che soffrono, sì, ma non hanno dolori.
La trama gattopardesca e l’influenza linguistica evidente, dichiarata, di Camilleri denunciano la “sicilianità” del libro, il suo inserirsi al termine di una determinata linea genealogica. Prova ne è il fatto che la zia marchesa è realmente esistita. Lontana parente della Hornby, di cui tutti in famiglia parlavano malissimo - a partire da quel suo strano colore di capelli, foriero solo di guai - la marchesa è già stata protagonista di una novella, niente popò di meno che di Pirandello, Tutt’e tre, che ne fissa il ricordo negativo da cui Hornby vuole riscattarla.
Eppure, al di là dei debiti innegabili nei confronti di predecessori così ingombranti, questo romanzo non è affatto il tardo epigono di una ben più florida stagione letteraria. Non credo si possa dire, come ho letto in qualche recensione, che si tratta di “un neo-feuilleton di trama infinita ed estenuante,… un romanzo di trama, di personaggi, di architettura professionale”, ma non un “romanzo di ricerca”, (…che poi bisognerebbe sapere cos’è un romanzo di ricerca senza trama, personaggi, dialoghi, narrazione, descrizioni, tutte cose in cui la Hornby si dimostra straordinariamente capace).
Sparita l’eleganza altera e, a tratti, compiaciuta di Tomasi di Lampedusa, la grazia e la leggerezza del siciliano arioso di Camilleri, la Hornby è impietosa e lucida nell’analisi. Greve, terrestre, aspra e impastata la lingua, debordante il fraseggio, smisurata la trama.
L’incomprensibile irrazionalità di un popolo che ride delle tragedie e fa drammi per niente, le radici antiche di una mentalità non completamente decifrabile e neppure superata, al centro della ricerca. Senza reticenze o giustificazioni posticce, rivestimenti mitologici né scuse per nessuno.

Stéphane Audeguy, La teoria delle nuvole

Sereno, velato, con qualche addensamento, il romanzo rivelazione di questo giovane scrittore francese scorre senza lasciare tracce significative del suo passaggio. Né impetuose tempeste, né abbacinanti giornate di sole. Una calma piatta, avvolta da una leggera foschia, che rende impossibile mettere a fuoco alcunché.
Diafani e inconsistenti i due protagonisti – Akira Kumo, un vecchio stilista giapponese trapiantato a Parigi, con un passato oscuro e uno strano interesse per la meteorologia, e Virginie Latour, la giovane bibliotecaria che si occupa delle sua collezione di opere sull’argomento e che, poco alla volta, ne conquista la fiducia – due sconosciuti fino alla fine, attorno a cui si intrecciano le storie di alcuni pionieri della scienza delle nuvole, vere e proprie incursioni nella trama principale, mai annunciate né portate a termine, rese ancor meno riconoscibili per la scelta, puntigliosa e irritante, del tempo presente, l’unico tempo, dilatato, in cui si svolge la narrazione.
Audeguy ci serve nel piatto un paio di ingredienti, a quanto pare, graditi al palato francese – la fascinazione per il sol levante, già assaporata nel romanzo della Barbery, l’insistenza su un erotismo morboso e cervellotico, una rivisitazione della tradizionale salsina psico-analitica, il gusto per una scrittura piana, chiara, pulita, “très chic”, anche se un po’ insipida – ma non riesce a farne un amalgama convincente.
Gli spunti narrativi più interessanti – il passato che Akira ha cancellato, l’originale composizione di piani, che dalla teoria delle nuvole ci porta fino alla nuvola più tremenda e aberrante, a Hiroshima - vengono annacquati, disciolti in un’atmosfera fredda e rarefatta, che sfiora soltanto le cose, senza abbracciarle. Deludente.

Francesco Piccolo, La separazione del maschio

Il maschio che racconta questa storia, la sua storia, è dotato di spirito d’osservazione, disarmante sincerità e totale disprezzo per qualsiasi forma di auto-compiacimento. Con questo maschio si può parlare – è già qualcosa - anzi talvolta è sorprendente, quasi inquietante, quanto in certe cose ci somigliamo.
È sposato e ha una figlia. È un buon padre, attento e disponibile, premuroso, non come quelli di una volta, distratti, assenti o irraggiungibili, sempre sulle difensive. È persino un buon marito, se si trascura per un po’ una serie di “dettagli” di cui parlerò a breve. Sta all’erta, sa che niente è per sempre, per questo si preoccupa di Teresa, la osserva, cerca di indovinarne i pensieri per darle ancora, giorno dopo giorno, buoni motivi per stare con lui. Certo non è perfetto, a volte s’incupisce per niente e spesso è lontano da casa, rintanato nella sala di montaggio, in cui lavora per ore, al buio, dissenzionando scene per ricreare un altro film, quella versione rivista e corretta, riassemblata, tradita o migliorata, che noi vediamo nelle sale.
Nel tempo libero questo maschio scopa altre donne. Non moltissime, sempre le stesse, salvo qualche sporadica new entry. Non vuole avventure, si affeziona, stabilisce rapporti duraturi, chiacchiera e raccoglie confidenze. Le studia con scrupolosa attenzione per riconoscere i tratti ricorrenti del suo desiderio sessuale nell’evidente diversità di ognuna. Non può rinunciare a nessuna, sono loro ad esser libere di lasciarlo. Sa che queste vite parallele prima o poi si insinueranno nella realtà, facendola deflagrare, mandando all’aria la famiglia, per cui vive e che ama, nonostante tutto, l’atmosfera calda e rilassante, quella noia confortante che solo tra le quattro pareti di casa propria si può provare. Sa, ma non può farci niente e poi tutto va come non t’aspetteresti.
Non è in crisi, né prova sensi di colpa. Ha imparato dal cinema - dall’immagine in movimento che doveva aiutarci a comprendere la durata - l’arte della separazione, del frammento, del ritaglio, della giustapposizione di scene provvisorie, riproducibili che si proiettano sempre altrove. Non l’io esplode, ma il mondo: di mondi ce ne sono tanti, paralleli e ignari l’uno dell’altro, rare e occasionali le comunicazioni, gli snodi fortuiti e ininfluenti, impossibile sentirsi in colpa se non si abita lo stesso mondo.
Non è uno stinco di santo, ma con questo maschio non riesco ad arrabbiarmi. Si auto-denuncia, ammette che “il suo immaginario erotico è elementare, di primo grado – una specie di modello base: l’immaginario erotico del maschio meridionale, il punto più basso della scala evolutiva della contemporaneità, probabilmente”.
Da qui, forse, può partire la conversazione.

martedì 6 ottobre 2009

Logica mente, se usata con malizia

Leggi l’articolo di Vittorio Macioce sul Giornale, “Rai, se i censori ora censurano Minzolini” e per un attimo, così fuori contesto, sembra persino plausibile, sensato. Tira in ballo la logica e il caro Bertrand Russell per palesare un’evidente contraddizione. E già, sostiene l’arguto commentatore, i paladini della libertà di stampa e d’espressione, pronti a mobilitarsi per far andare in onda Santoro, pretendono invece di zittire Minzolini, per il solo fatto che non la pensa come loro. Ammirevole integrità, bella coerenza!

Provi a resistere all’attacco, a fare qualche distinguo, chessò formale - una cosa è il telegiornale e altra l’approfondimento – e subito reagiscono.

Vuoi forse dire che il tg deve essere “imparziale” mentre gli altri hanno diritto ad avere un’opinione? Ma è un falso mito l’imparzialità, ognuno occupa un posticino nel mondo, da lì guarda le cose e le racconta.

Rilanci. E l’istituzionalità?

Beh, non è la prima volta che il direttore del tg1 fa un suo editoriale, uno strumento con cui non racconta un fatto, dice come la pensa.

Dai uno sguardo su youtube, trovi qualche precedente - le dimissioni di Riotta, quelle di Lerner, ancora Gad che agita un foglietto, denunciando pressioni per qualche assunzione, uno molto cliccato della Busi (che direttore non era) sul caso di Maria, la bimba bielorussa – insomma commenti sulla propria esperienza professionale o su notizie che colpiscono l’opinione pubblica, nessun parere personale direttamente legato alla vita politica del paese.

Quindi, diciamo, è irrituale, ma non vorrai pretendere di fissare una volta per tutte l’elenco degli argomenti discutibili in un telegiornale?

Arranchi. E il pluralismo?

Sì, in effetti la situazione dell’informazione in Italia è alquanto anomala, il capo del governo possiede il più importante network televisivo del paese, è un editore, ha più di un giornale e per di più controlla il servizio pubblico, ma Minzolini non è il garante. Non è mica colpa sua l’attuale assetto e che può farci se è d’accordo con la maggioranza?

In ogni caso, è quanto meno, inopportuno. Conosce il quadro e alza volutamente il tiro. E come la mettiamo con la collegialità? La redazione del suo tg non sapeva di questa presa di posizione e tanto meno la condivideva.

Indelicato, si può esser d’accordo, ma parlava a titolo personale e comunque gli altri redattori hanno potuto fare un comunicato per dissentire, no?

Spazientita ricominci daccapo, rileggi l’articolo, ripensi a cosa hai fatto.
Ecco il busillis, qui si confonde critica e censura! Perché è chiaro che essere a favore della libertà d’espressione non ti impegna affatto ad essere d’accordo con gli altri, fossero anche la maggioranza, in ogni singola discussione di merito. Ti riservi il diritto alla critica, proprio quello che hai esercitato, producendo anche qualche discreta ragione per contestare la scelta di Minzolini.
La censura è un altro mestiere. Innanzitutto devi sapere prima cosa ha intenzione di dire il tuo avversario (così, per ipotesi, un giornalista che ti è sgradito). Poi devi essere abbastanza potente, devi avere i mezzi per tentar d’impedire che esprima il suo parere, magari facendo pressioni sul suo capo, mettendo in forse i contratti dei suoi collaboratori. Oppure, con un po’ di anticipo, puoi montare una campagna contro di lui dalle colonne dei tuoi giornali, dalle scrivanie di direttori compiacenti, screditando in partenza il suo punto di vista in modo che sembri legittima la sua eventuale defenestrazione, una richiesta popolare. O magari puoi fare entrambe le cose.

Tiri un sospiro di sollievo. La logica funziona, ma qui c’è il trucco.



p.s.: grazie a Michele per aver alimentato la discussione e a Rony (che non conosco) per la soluzione del rebus.

domenica 4 ottobre 2009

Anno zero. Punto e a capo

E così mi appresto anch’io a dire qualche ovvietà su Santoro e il polverone scatenatosi attorno alla sua intervista alla D’Addario. Che l’argomento attragga anche i non addetti ai lavori e i meno appassionati, quelli a cui non interessa troppo la politica e guardano (o dicono di guardare) poca tv, è sotto gli occhi di tutti. Da un po’ di giorni, ad esempio, su feisbuc è un continuo tam tam di pareri alternati, di grida allo scandalo per l’indecenza del servizio pubblico (particolarmente indignate alcune donne) e di difese veementi, persino accorate, in cui anch’io mi sono esercitata.

Personalmente, s’è capito, non vedo lo scandalo. Pur non reputando la signorina in questione un modello di integrità, non capisco perché non possa andare in tv a raccontare la sua storia. Dal punto di vista giornalistico la notizia c’è - il caso Tarantini non l’ha inventato Santoro - e finora tanto è bastato per intervistare assassini, stupratori, bombaroli, mafiosi, insomma una variegata sarabanda di campioni della moralità. Ma tant’è, molti non approvano, né voglio provare a convincerli in questa occasione.

Santoro non è interessato agli aspetti giuridici dell’affaire Tarantini, ma a quelli legati all’etica pubblica, alla vita politica e, direi, sociale del paese. Ed è interessato a Berlusconi. In pratica ci chiede se possiamo ignorare quello che è venuto fuori negli ultimi mesi.
Queste, grosso modo, le sue domande: possiamo concedere al nostro presidente del consiglio, in aggiunta all’immunità giuridica (in via di approvazione), quella morale? Possiamo far finta di credere che sia plausibile che un rappresentante delle istituzioni ceni a casa sua con delle emerite sconosciute, il cui unico tratto comune è l’essere giovani e belle, convinto che siano lì per caso? È normale che un capo di governo sia abbordabile da strani personaggi, come Tarantini, indagato a Bari da tempo e, a colpo d’occhio, a dir poco pittoresco, senza che lui o un uomo del suo staff abbiano il benché minimo dubbio sull’opportunità di queste frequentazioni? Davvero non è di pubblico interesse che queste simpatiche ragazze, tanto stimate dal premier, finiscano poi a lavorare per la rai o a mediaset (quasi fosse la stessa cosa) o, peggio, nelle liste elettorali del suo partito? Contro quest’uso personalistico del partito non dovrebbe sollevarsi in primo luogo il suo elettorato, quell’elettorato che invece si scandalizza per la D’Addario in tv?(Perché un fatto è certo, la prima legittimazione alle escort viene dalle candidature, non certo dall’intervista di Santoro, e a sinistra abbiamo fatto fuori leader per molto meno.)

Segnalo che Santoro, ovviamente, non è il primo a porre tali questioni e che, a rigore, per affrontare questi temi, i dettagli che può rivelare Patrizia sono assolutamente ininfluenti. Il clamore scatenatosi attorno alla risposta “sì, sapeva che ero un’escort” è assolutamente ingiustificato. L’aveva già detto, sempre un po’ evasiva, e questa dichiarazione (tra l’atro non isolata) aggiunge poco o niente al quadretto, che, ricordo, è il seguente: un attempato signore, che di mestiere fa il capo del governo, a cena, con due o tre amici di vecchia data e una ventina di allegre ragazzotte, ragazzotte che poi ritroviamo in tv (e qui conferma Saccà) o in liste elettorali (qui Fini). C’è veramente poco da equivocare. Qui Santoro fa il furbo e si gioca la sua carta. Fondamentalmente rimette in scena, con qualche colpo di teatro, una storia che già conosciamo.

Altrettanto banalmente Santoro ha una risposta a tutte le sue domande, è di parte e non fa niente per mascherarlo. Semplicemente invita qualcuno che non la pensa come lui, perché controbatta le sue tesi o approvi con riserva. Si può contestare la scelta degli argomenti, ma al dunque è lui l’autore del programma, è lui che decide di cosa discutere e i suoi ospiti, o i telespettatori che lo seguono da casa, possono, al massimo, fargli qualche appunto o decidere di cambiare canale, non possono imporgli un tema diverso. Molte volte davanti al plastico di Cogne, a inquietanti interrogativi come “zoccolo o mestolo?”, a approfondite disquisizioni sulla storia di miss Italia, a minuziose analisi della personalità di Alberto Stasi, ho sperato, persino pregato, che cambiassero argomento, che qualcuno si levasse indignato perché “ben altre sono le questioni che interessano al paese”, ma ho dovuto arrendermi all’evidenza. Non funziona così e ho finito col considerare anche questa una banalità.

Invece qui saltano gli schemi e la musica cambia. Perché non soltanto assistiamo a prese di posizioni politiche, a pesanti ingerenze per delegittimare le scelte di Santoro e impedirne la messa in onda. Quand’anche il programma si faccia (e s’è fatto) lo si manda all’aria dall’interno, rifiutando, sistematicamente, di affrontare il terreno di discussione che gli è proprio. È questa la strategia di alcuni professionisti del depistaggio argomentativo, come Belpietro, piuttosto convincenti in questa operazione. Restituire al mittente le questioni politiche poste da Santoro, spostandosi sul terreno dell’inchiesta giudiziaria (che merita di essere discussa, ma, come ho detto prima, non è oggetto della puntata).

Quel che colpisce, però, è che questo disprezzo automatico per regole minime dell’argomentazione, come la pertinenza, viene riproposto dai giovani che Michele invita. Non voglio nemmeno commentare la performance della Montaruli, la ragazza dei circoli di Silvio, che non riusciva a prendere fiato mentre sciorinava i nuovi slogan contro il pd, senza preoccuparsi minimamente della loro attinenza con le questioni discusse. Vorrei, invece, spendere due parole sulla femminista bolognese (di cui non ricordo il nome), che a Sansonetti (molto critico nei confronti della “tivvù spazzatura” di Santoro) è piaciuta proprio per gli stessi motivi per i quali io rabbrividisco. Pizzicata dalla Latella per un top scollato, che una femminista degli anni ’70 non avrebbe mai portato, la signorina rimarca le distanze dal femminismo alla vecchia, dicendo di essere “ben felice” che le donne vadano più scoperte (e qui glissa rapidamente, ma bisognerebbe essere più precise; io, ad esempio, sono ben felice di vestirmi come mi pare, ma mica tanto felice della filippona a “striscia la notizia”). Comunque, interrogata su cosa pensa delle questioni emerse nel caso Tarantini in relazione alla sua esperienza femminista, invece di cogliere il gancio della Latella sul lavoro precario delle donne, sui salari ridicoli, guadagnati a fatica, a fronte dei 1000 euro che una ragazza immagine porta a casa in una sera, incredibilmente, comincia a recitare la litania del femminismo più datato, la condizione delle casalinghe e l’aborto. Resto interdetta: e cosa c’entra? A parte il fatto che le casalinghe sono in via di estinzione tra le giovani donne, possibile che non ci sia nulla di più pertinente ed efficace da tirare fuori in questo momento? È tutto qua il new feminism? Non credo e fa specie che Sansonetti si esalti per così poco.
È evidente che il ragionamento a vanvera, la disaffezione per una discussione circostanziata, che analizzi una cosa per volta, la partigianeria acritica e rissosa, il muro contro muro, completamente svincolato dalle questioni di merito, dall’oggetto delle nostre conversazioni, prevale sia a destra che a sinistra, tanto più quando si parla del nostro caro premier.

È qui sta l’impasse del programma, Michele. Perché ne puoi fare pure 100 di puntate come questa. Finché le cose stanno così, fino a quando gli ospiti in studio, i contraddittori di mestiere e le nuove generazioni che si affacciano alla mischia, si sentiranno autorizzati a sparare a casaccio, in base all'assunto che l'argomento da te proposto è illegittimo o insufficiente (quindi tanto vale parlar d'altro) siamo sempre punto e a capo.

sabato 3 ottobre 2009

oh, finalmente ce l'ho fatta anch'io!

ora mi sgranchisco un po' il collo, lo allungo, mi guardo attorno e vi racconto cosa vedo da quassù.

a presto, cari abitanti della savana, e ricordate che qui non ci sono molte regole, ma è vietata la caccia grossa!