venerdì 9 ottobre 2009

Stéphane Audeguy, La teoria delle nuvole

Sereno, velato, con qualche addensamento, il romanzo rivelazione di questo giovane scrittore francese scorre senza lasciare tracce significative del suo passaggio. Né impetuose tempeste, né abbacinanti giornate di sole. Una calma piatta, avvolta da una leggera foschia, che rende impossibile mettere a fuoco alcunché.
Diafani e inconsistenti i due protagonisti – Akira Kumo, un vecchio stilista giapponese trapiantato a Parigi, con un passato oscuro e uno strano interesse per la meteorologia, e Virginie Latour, la giovane bibliotecaria che si occupa delle sua collezione di opere sull’argomento e che, poco alla volta, ne conquista la fiducia – due sconosciuti fino alla fine, attorno a cui si intrecciano le storie di alcuni pionieri della scienza delle nuvole, vere e proprie incursioni nella trama principale, mai annunciate né portate a termine, rese ancor meno riconoscibili per la scelta, puntigliosa e irritante, del tempo presente, l’unico tempo, dilatato, in cui si svolge la narrazione.
Audeguy ci serve nel piatto un paio di ingredienti, a quanto pare, graditi al palato francese – la fascinazione per il sol levante, già assaporata nel romanzo della Barbery, l’insistenza su un erotismo morboso e cervellotico, una rivisitazione della tradizionale salsina psico-analitica, il gusto per una scrittura piana, chiara, pulita, “très chic”, anche se un po’ insipida – ma non riesce a farne un amalgama convincente.
Gli spunti narrativi più interessanti – il passato che Akira ha cancellato, l’originale composizione di piani, che dalla teoria delle nuvole ci porta fino alla nuvola più tremenda e aberrante, a Hiroshima - vengono annacquati, disciolti in un’atmosfera fredda e rarefatta, che sfiora soltanto le cose, senza abbracciarle. Deludente.

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