venerdì 9 ottobre 2009

La democrazia dell’applauso

La corrispondenza d’amorosi sensi tra Silvio e il suo elettorato non conosce esitazioni, neppure di fronte a scandali e sentenze. Le polemiche serrate spingono, semmai, la base a far quadrato attorno al premier, vittima di chissà quali complotti. Il singolare fenomeno si sta rivelando un’arma a doppio taglio per il dibattito interno allo stesso pidielle, già gravato da grosse ipoteche, a partire dalla mancata elezione collegiale del segretario. E così nonostante i segni di nervosismo - le insofferenze di Fini, i bollori estivi di Miccichè e Prestigiacomo, le prime timide manovre di palazzo - al dunque bisogna restare compatti a costo di ingoiare qualche rospo. D’altronde, da questa situazione, anche gli scettici qualche cosa ci guadagnano. Senza troppi sforzi fanno di necessità virtù e trasformano la devozione popolare, che per altri versi gli è d’ostacolo, in una clava da agitare contro l’avversario. Dubbi sulla legittimità dei respingimenti? Contestazioni sullo scudo fiscale? Perplessità sull’economia creativa (e un po’ vaga) di Tremonti? Preoccupazioni per scuola e ricerca? Prima o poi ti senti dire che “loro hanno il consenso”, che “la gente li ha votati”.
Il premier e i suoi fedelissimi fanno di più. Invocano la piazza per contestare sentenze di tribunali civili e consulta, si richiamano al nuovo modello di “sovranità popolare” a cui vogliono ispirarsi, per il quale, come spiega Alfano, “chi vince governa”, probabilmente al di sopra e al di là di vincoli giuridici e costituzionali, retaggio di un’epoca conclusa. Il consenso sembra esonerare i rappresentati di governo dalla giustificazione pubblica dettagliata delle proprie scelte. È un argomento buono per tutte le stagioni.
Soprattutto il “consenso” e il “consenso sul consenso”, come strumento dialettico decisivo per risolvere il confronto, si sono potuti formare senza che fosse necessario colpire lo stato di diritto, come nei regimi veri e propri. Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, che non sappiamo ancora definire con chiarezza. Democrazia autoritaria? Non c’è accordo sul nome. Quel che è certo è il ricorso al carisma e alla forza del numero a discapito del dibattito ragionato, del rispetto di regole e valori condivisi, fissati dal nostro ordinamento.
È pur sempre democrazia? Ho qualche dubbio.
Una volta gli stessi partiti diffidavano dei personalismi, tentando di arginarli al proprio interno. Macchinoni ingombranti, a volte ingessate per l’eccessivo rigorismo procedurale, le formazioni politiche di un tempo erano piuttosto vivaci tra correntoni, vertenze, mozioni ed estenuanti sedute di congresso. I segretari di partito duravano poco e non avevano vita facile.
Non sempre tutto questo è stato un bene, ma bisogna pure ricordare che, in molte occasioni, l’alto livello di discussione interna li ha aiutati ad auto-emendarsi, una pratica che le democrazie dovrebbero incoraggiare e che, invece, in Italia è in declino.
Un lontano antecedente di questa odierna, straripante, tendenza, una prima concessione al potere carismatico del capo, sembrerebbe l’elezione per acclamazione di Bettino Craxi a segretario del partito socialista, nel congresso di Verona del 1984. Qualche giorno dopo Bobbio, socialista certamente non asservito a strategie di partito, battitore libero guardato con diffidenza da liberali, comunisti e compagni di partito, scriveva sulla Stampa un suo editoriale, “La democrazia dell’applauso”, commentando l’episodio.
Diceva Bobbio “l’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi dell’elezione democratica (…). L’acclamazione, in altre parole, non è una elezione, è un’investitura. Il capo che ha ricevuto un’investitura, nel momento stesso in cui la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua ‘missione’”. E continuava, infuocato, richiamando l’attenzione sulle regole del gioco democratico, illustrandone la logica e il significato. Quel giorno, leggendo il giornale, un altro socialista si trovò d’accordo. Prese il telefono e chiamò Bobbio. Rispose sua moglie, non era in casa. “Sono il presidente Pertini, glielo dica, i suoi giudizi sono anche i miei.”
Qualche anno dopo Bobbio ebbe qualche problemino anche con Berlusconi.
La sensibilità politica di questi vecchi, la loro raffinatezza analitica, la capacità di intervenire al primo segnale d’allarme, getta una strana luce sul lassismo e l’indifferenza con cui, invece, è potuto passare il principio che il consenso fosse la regola aurea, non soltanto per le elezioni di un segretario di partito, ma, più in generale, per la discussione pubblica stessa.
Cassandra non viene mai presa sul serio.

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