venerdì 9 ottobre 2009

Simonetta Agnello Hornby, La zia marchesa

Un libro per stomaci capaci, per famelici ingordi pronti alla grande abbuffata.
Fine Ottocento, Sicilia aspra, calda, selvaggia e desolata, come lo sguardo di Amalia, la balia di Costanza, la “criata” di casa Safamita, che trascorre i suoi giorni lenti, faticosi e sempre uguali incastrata nelle grotte della Montagnazza insieme a sua nipote, Pinuzza. Unico passatempo il racconto degli anni trascorsi a servizio, a tirar su quella bambina strana, rossa di pelo, spuntata fuori da non si sa dove, al cui destino si legano le sorti di un’intera famiglia, generazioni di “padroni”, nobili oziosi e indolenti, abituati a comandare, scalzati - poco alla volta, ma inesorabilmente - dai nuovi potenti, politici e mafiosi, con cui, per sopravvivere, bisogna scendere a patti. Sullo sfondo, caparbio, ostinato, il colpo d’occhio degli ultimi, il fatalismo rassegnato di chi sa che tutto cambia per rimanere uguale. Le increspature di superficie non coinvolgono gli abissi a loro assegnati e con questa consapevolezza, appiccicata addosso, osservano le vicende dei padroni, i crucci e gli affanni di quei pupi in crinolina, che soffrono, sì, ma non hanno dolori.
La trama gattopardesca e l’influenza linguistica evidente, dichiarata, di Camilleri denunciano la “sicilianità” del libro, il suo inserirsi al termine di una determinata linea genealogica. Prova ne è il fatto che la zia marchesa è realmente esistita. Lontana parente della Hornby, di cui tutti in famiglia parlavano malissimo - a partire da quel suo strano colore di capelli, foriero solo di guai - la marchesa è già stata protagonista di una novella, niente popò di meno che di Pirandello, Tutt’e tre, che ne fissa il ricordo negativo da cui Hornby vuole riscattarla.
Eppure, al di là dei debiti innegabili nei confronti di predecessori così ingombranti, questo romanzo non è affatto il tardo epigono di una ben più florida stagione letteraria. Non credo si possa dire, come ho letto in qualche recensione, che si tratta di “un neo-feuilleton di trama infinita ed estenuante,… un romanzo di trama, di personaggi, di architettura professionale”, ma non un “romanzo di ricerca”, (…che poi bisognerebbe sapere cos’è un romanzo di ricerca senza trama, personaggi, dialoghi, narrazione, descrizioni, tutte cose in cui la Hornby si dimostra straordinariamente capace).
Sparita l’eleganza altera e, a tratti, compiaciuta di Tomasi di Lampedusa, la grazia e la leggerezza del siciliano arioso di Camilleri, la Hornby è impietosa e lucida nell’analisi. Greve, terrestre, aspra e impastata la lingua, debordante il fraseggio, smisurata la trama.
L’incomprensibile irrazionalità di un popolo che ride delle tragedie e fa drammi per niente, le radici antiche di una mentalità non completamente decifrabile e neppure superata, al centro della ricerca. Senza reticenze o giustificazioni posticce, rivestimenti mitologici né scuse per nessuno.

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