E veniamo al bestiario di sinistra con le sue inconcludenze, le confusioni, la logica binaria che spesso contraddistingue tanto la classe dirigente (o quel che di essa rimane dopo la sonora sconfitta del 2008) quanto i rivoli sparsi del suo elettorato, gli “esuli” come li chiama Diamanti, che non votano o votano con il naso tappato, perché orfani di un punto di riferimento politico, che si occupi della loro rappresentanza.
Sto per dire cose che mi renderanno antipatica anche agli amici, quindi metto le mani avanti: in questa massa “liquida”, eterogenea mi colloco anch’io, con tutto le incertezze e le oscillazioni del caso. Non voglio far la “maestrina” e indicare soluzioni, anche se mi permetto qualche giudizio, pratica, a mio avviso, di per sé né scandalosa né derogabile (bisogna, al dunque, pur dire cosa si pensa per dar vita ad una discussione).
Parto da qualche breve antefatto per inquadrare il mio punto di vista, che si delinea, anche per me, non come un vero e proprio ragionamento, piuttosto come una procedura indiziaria, il profilarsi di dubbi e perplessità a partire da prove marginali, piccoli tasselli che a poco a poco compongono un quadro.
Quando Rossi e Turigliatto minacciarono di far cadere il governo Prodi, una maggioranza che si reggeva per un pugno di voti al Senato, sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero, ricordo che mi sembrarono pazzi, in preda ad un utopismo onirico che li collocava fuori della realtà. Roba da delirio mentale, totale perdita di rapporto col mondo, di sensibilità al contesto (interno ed estero), al quadro storico. Soprattutto nessuna dimestichezza con la sfera politica, con questioni come il diritto internazionale, i vincoli diplomatici, il gioco di equilibrio di opportunità strategiche (e non tattiche) che essa comporta, il bisogno continuo di riflessione su temi che non si possono liquidare con una filosofia delle quattro parole, “no alla guerra senza se e senza ma”, ideale di per sé nobile, che andrebbe promosso (concretamente) a livello sociale, ma politicamente vuoto.
In generale chi fa politica (o se ne interessa) ha il dovere di interrogarsi su questioni come la guerra, sulle condizioni che la giustificano come extrema ratio, sui modi possibili per evitarla e sull’equità di tali alternative. Non può semplicemente puntare i piedi e dire no. Ha sbagliato mestiere. Piacerebbe a tutti che la guerra sparisse con un gioco di parole, ma un po’ di sano realismo politico insegna che il pacifismo da solo non basta. Lascio parlare Bobbio, che certamente lo spiega meglio di me. “Se tutti gli stati del mondo disarmano tranne uno, questo diventa il signore della Terra. Quando si entra nella sfera politica, non si può prescindere da un minimo di realismo. Il disarmo unilaterale favorisce i violenti. Questo è il problema che i pacifisti radicali devono sciogliere: sino a che tutti gli uomini, dico tutti, non saranno non violenti, non solo la non violenza non otterrà il proprio scopo, ma rischia di rendere un servizio ai violenti, per i quali è più facile dominare un mondo di non violenti che un mondo di altrettanto violenti come loro. Il paradosso della non violenza è che incoraggia la violenza dei violenti.” Questo, per me, è un dato di fatto (non il solo per fortuna a comporre la sfera del politico). Ora, una forza che si vuole politica, come Rifondazione, può semplicemente liberarsi di esso, non elaborare la questione in contesto, dandola per risolta in via di principio, “senza se e senza ma”, una volta per tutte? Non credo.
Quando Obama si è candidato alle presidenziali non mi è piaciuto subito. Cresciuta a pane e dietrologie, politicamente diffidente per natura (il che spesso si è rivelato cosa buona), mi insospettiva l’ondata di entusiasmo collettivo per un tizio troppo patinato e telegenico per essere vero. Bello come Denzel Washington, osannato come Marthin Luther King, molto sospetto per me. Alla lunga, però, Barack mi ha convinto. Non sono un’obamiana fanatica, ma riconosco che è intelligente e in gamba, parla chiaro, persegue obiettivi condivisibili, ha effettivamente rinnovato il panorama politico americano e in parte anche quello sociale, risvegliando un interesse per il dibattito pubblico, collettivo, intorpidito da tempo. Rappresenta una svolta (sia pur limitata) anche per lo scenario internazionale, rispetto ai piani dell’amministrazione Bush, che sulla guerra avrebbe insistito ancora a lungo, esportandola anche altrove. Due le tappe decisive per la crescita del mio personale gradimento nei suoi confronti: il discorso all’Università del Cairo, diretto al mondo islamico, e quello al Congresso, sulla riforma sanitaria. Tutte e due le volte Mr. Obama mi ha letteralmente incollato al video: non è stato reticente, ha argomentato con straordinaria efficacia, ha prospettato soluzioni realistiche, ha evitato fronzoli e melassa, non ha lesinato critiche pungenti ed è stato capace di mettere (quanto meno provvisoriamente) tutti d’accordo. Ha strappato applausi su entrambi i fronti, ragionando come non si sentiva da tempo. In poche parole molto meglio di quel che ha fatto Denzel nei suoi film, impensabile, fino a poco tempo fa, nel mondo reale.
Tuttavia si tratta pur sempre di discorsi, di parole e poco più. Come recita l’adagio “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Bisogna stare in guardia e non lasciarsi prendere da facili entusiami. E qui arriva il Nobel sulla fiducia, imprevisto, immaturo, immeritato. Concordo, anche se bisognerebbe ricordare che Obama non se l’è assegnato da solo. In ogni caso le cerimonie e i festeggiamenti per il premio s’incastrano singolarmente (sarebbe meglio dire cozzano, fanno a pugni) con la decisione di inviare considerevoli rinforzi in Afghanistan, altri 30.000 uomini nei prossimi mesi, il che tinge tutto di un alone surreale. E anche su questo sono, in parte, d’accordo.
Ma qui scatta il rovesciamento e cominciano a fioccare da più parti a sinistra (in Italia s’intende) critiche rancorose tra quanti un tempo erano, per lo meno, fiduciosi, se non proprio fan. Obama è un traditore, una marionetta, un imbroglione come gli altri, un bluff.
Per me la questione diventa in tal modo ideologica, irriflessa, inceppata dalla logica binaria delle grandi alternative (rosso o nero, tutto o niente), capace solo di slogan e poco più. Che il Nobel sia immeritato è un fatto (chi legge “Doonesbury” ne ride da un po’ in mezzo mondo). Che Obama non sia il salvatore dell’umanità, che il mondo, all’indomani della sua elezione, non si sia improvvisamente trasformato (e in meglio), che il presidente degli Stati Uniti si muova all’interno di vincoli precisi, operando in un contesto, pregresso, predeterminato e da lui, in buona sostanza, indipendente, è un altro fatto.
Il che ci riporta alla questione della guerra in Afghanistan, che è poi il motivo principale delle critiche a lui rivolte. La guerra al momento è un grande fallimento, il rapporto del generale Petraeus parla chiaro. Non avrebbero dovuto aprire un altro fronte in Iraq, distraendo forze da lì; così i talebani hanno ripreso il controllo di gran parte del territorio, applicando ritorsioni sommarie contro i civili inermi, i traditori e le traditrici che si sono messi in fila per votare o per andare a scuola (da stragi e attentati a ripicche più “fantasiose” e sadiche, come lo stupro o l’acido in faccia). Il governo locale è corrotto e per niente autorevole, incapace di garantire diritti minimi alla popolazione locale, quali sicurezza, istruzione o sanità. La ricostruzione non è neppure iniziata. L’esercito americano, pochi uomini distribuiti a macchia di leopardo, con tecnologie fin troppo grandi e ingombranti per non essere bersaglio di imboscate, così può veramente poco contro l’agile ed esperta guerriglia talebana. Questo lo scenario che fa da sfondo alla decisione di Obama. Forse si avvia verso un nuovo Vietnam, ma certamente non può non tener conto di questo quadro.
Si può discutere a monte della scelta di far guerra all’Afghanistan all’indomani dell’11/09. Certo non siamo andati lì per scopi umanitari, per filantropia o amor di giustizia. Ci sono enormi interessi dietro, è probabile che l’attacco fosse pianificato da mesi, molto prima del crollo delle due torri. Possiamo riesaminare il caso dalle più svariate angolazioni, ricostruire l’ordine degli accadimenti, rivedere cronologia e scenari, scrivere una storia più vera. Ma l’argomento contro le “ragioni” della guerra di Bush è davvero così decisivo per determinare cosa fare in questo momento? O la situazione che emerge dai rapporti (non soltanto quelli governativi ovviamente) non è comunque preoccupante, degna di analisi, tanto da parte della politica internazionale quanto di quella nostrana e dei cittadini stessi, specie quelli politicamente attivi, come ho l’illusione di credere siamo a sinistra? Non sarebbe il caso di abbandonare qualche formula affrettata e cominciare a ragionare sui fatti?
Con questo non voglio dare ragione ad Obama, finendo con l’essere più realista del re. Semplicemente credo che prima di sostenere che il ritiro sia l’unica strada, perché siamo di fronte ad una sporca guerra, che in quanto tale è sempre ingiusta…insomma prima di fare astrazione, parlando in generale e buttandola, di fatto, in casciara, dobbiamo discutere del caso concreto. E allora bisogna davvero impegnarsi per dimostrare che il ritiro, adesso, è “più giusto”, moralmente e politicamente, producendo argomenti solidi a sostegno di questa tesi.
Io ho molti dubbi che una tale impresa riesca, non ho soluzioni e l’intera faccenda mi sembra un guazzabuglio. Sbagliata (e in malafede) la scelta di Bush, poco convincente l’idea di dire ora “Ci siamo sbagliati, abbiamo distrutto qua e là, non facciamo in tempo a rifare strade, ponti e ospedali, vi lasciamo nelle mani di amabilissime personcine, quali sono i talebani, con qualche calcinaccio e molta miseria.”
Con tutto questo sproloquio voglio soltanto suggerire alla “sinistra a sinistra”, a Rifondazione e agli “esuli”, di tornare a confrontarsi con il mondo reale, che spesso è problematico, talvolta (per fortuna non sempre), specie in relazione a cose complesse come la guerra, tragico e irrisolvibile, prima di passare agli schemi, alle sintesi e ai rovesciamenti. Prima di cedere alla tentazione degli slogan, alla rapida trasformazione degli amici in avversari di paglia, operazione che spesso fa il gioco del nemico reale. Insomma di ri-appassionarsi alla politica, di lavorare di immaginazione, senza fermarsi mai ai luoghi comuni, alle frasi fatte, anche quando le abbiamo fatte noi. I confini del “giusto” si spostano di continuo: i principi sono importanti, ma si applicano sempre in contesto.
sabato 12 dicembre 2009
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Ammirevole sforzo di convingere uno sparuto e alquanto minoritario gruppo di rifondaroli e altre persone a sinistra della sinistra a vedere le cose come un "progressista moderato" (in un paese dove la gran parte delle persone guarda a destra!) :)))) Comunque, ti ho finalmente aggiunto ai link mio blog (prima non sapevo come si fa) e al Google RSS reader (non sapevo neppure cosa fosse!) ora ti leggerò più spesso.
RispondiEliminalo so, lo sforzo è vano in partenza, ma non riesco a risparmiarmelo...certo che a sinistra (per quanto sparuti siamo) ci condanniamo da soli all'inconsistenza...ora aggiungo il link del tuo blog al mio, sui google rss non so di cosa parli. puoi darmi delucidazioni, please?
RispondiEliminanon desisto e rintuzzo. va bene, concedo, il paese va è destra, ma gli "esuli", gli insoddisfatti per la politica del pd non sono pochi. il pd, con il suo continuo inseguimento al centro, è costretto ad una certa ambiguità su temi rilevanti per un elettorato di sx (diritti, laicità, lavoro tanto per dirne qualcuno). il che avrebbe dovuto accelerare le manovre di convergenza a sx (i resti di rifonda & co.) per l'elaborazione di una nuova piattaforma politica (evidente la bocciatura del comunismo alla vecchia)che colmasse il vuoto. il contrario di quel che è accaduto (e qui veniamo alla miopia della classe dirigente). d'altronde questo stesso elettorato fluido (composto anche da giovani trentenni, eterogenei, atipici, "precari" dal punto di vista di vista sociale) dovrebbe a sua volta affrancarsi da punti di vista ideologici, evitare di compattarsi solo a proposito di grandi riti collettivi ("no alla guerra", "no al g8", "no a questo e quell'altro", paccottiglia mitologica che continua a circolare in maniera irriflessa, sotto-traccia) per comiciare ad articolare domande, richieste e proposte concrete, adeguate ai tempi. il che, secondo me, aiuterebbe anche a svegliare i grandi vecchi d'apparato, che al momento si cullano, pensando di cavarsela con 4 parole.
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