La corrispondenza d’amorosi sensi tra Silvio e il suo elettorato non conosce esitazioni, neppure di fronte a scandali e sentenze. Le polemiche serrate spingono, semmai, la base a far quadrato attorno al premier, vittima di chissà quali complotti. Il singolare fenomeno si sta rivelando un’arma a doppio taglio per il dibattito interno allo stesso pidielle, già gravato da grosse ipoteche, a partire dalla mancata elezione collegiale del segretario. E così nonostante i segni di nervosismo - le insofferenze di Fini, i bollori estivi di Miccichè e Prestigiacomo, le prime timide manovre di palazzo - al dunque bisogna restare compatti a costo di ingoiare qualche rospo. D’altronde, da questa situazione, anche gli scettici qualche cosa ci guadagnano. Senza troppi sforzi fanno di necessità virtù e trasformano la devozione popolare, che per altri versi gli è d’ostacolo, in una clava da agitare contro l’avversario. Dubbi sulla legittimità dei respingimenti? Contestazioni sullo scudo fiscale? Perplessità sull’economia creativa (e un po’ vaga) di Tremonti? Preoccupazioni per scuola e ricerca? Prima o poi ti senti dire che “loro hanno il consenso”, che “la gente li ha votati”.
Il premier e i suoi fedelissimi fanno di più. Invocano la piazza per contestare sentenze di tribunali civili e consulta, si richiamano al nuovo modello di “sovranità popolare” a cui vogliono ispirarsi, per il quale, come spiega Alfano, “chi vince governa”, probabilmente al di sopra e al di là di vincoli giuridici e costituzionali, retaggio di un’epoca conclusa. Il consenso sembra esonerare i rappresentati di governo dalla giustificazione pubblica dettagliata delle proprie scelte. È un argomento buono per tutte le stagioni.
Soprattutto il “consenso” e il “consenso sul consenso”, come strumento dialettico decisivo per risolvere il confronto, si sono potuti formare senza che fosse necessario colpire lo stato di diritto, come nei regimi veri e propri. Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, che non sappiamo ancora definire con chiarezza. Democrazia autoritaria? Non c’è accordo sul nome. Quel che è certo è il ricorso al carisma e alla forza del numero a discapito del dibattito ragionato, del rispetto di regole e valori condivisi, fissati dal nostro ordinamento.
È pur sempre democrazia? Ho qualche dubbio.
Una volta gli stessi partiti diffidavano dei personalismi, tentando di arginarli al proprio interno. Macchinoni ingombranti, a volte ingessate per l’eccessivo rigorismo procedurale, le formazioni politiche di un tempo erano piuttosto vivaci tra correntoni, vertenze, mozioni ed estenuanti sedute di congresso. I segretari di partito duravano poco e non avevano vita facile.
Non sempre tutto questo è stato un bene, ma bisogna pure ricordare che, in molte occasioni, l’alto livello di discussione interna li ha aiutati ad auto-emendarsi, una pratica che le democrazie dovrebbero incoraggiare e che, invece, in Italia è in declino.
Un lontano antecedente di questa odierna, straripante, tendenza, una prima concessione al potere carismatico del capo, sembrerebbe l’elezione per acclamazione di Bettino Craxi a segretario del partito socialista, nel congresso di Verona del 1984. Qualche giorno dopo Bobbio, socialista certamente non asservito a strategie di partito, battitore libero guardato con diffidenza da liberali, comunisti e compagni di partito, scriveva sulla Stampa un suo editoriale, “La democrazia dell’applauso”, commentando l’episodio.
Diceva Bobbio “l’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi dell’elezione democratica (…). L’acclamazione, in altre parole, non è una elezione, è un’investitura. Il capo che ha ricevuto un’investitura, nel momento stesso in cui la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua ‘missione’”. E continuava, infuocato, richiamando l’attenzione sulle regole del gioco democratico, illustrandone la logica e il significato. Quel giorno, leggendo il giornale, un altro socialista si trovò d’accordo. Prese il telefono e chiamò Bobbio. Rispose sua moglie, non era in casa. “Sono il presidente Pertini, glielo dica, i suoi giudizi sono anche i miei.”
Qualche anno dopo Bobbio ebbe qualche problemino anche con Berlusconi.
La sensibilità politica di questi vecchi, la loro raffinatezza analitica, la capacità di intervenire al primo segnale d’allarme, getta una strana luce sul lassismo e l’indifferenza con cui, invece, è potuto passare il principio che il consenso fosse la regola aurea, non soltanto per le elezioni di un segretario di partito, ma, più in generale, per la discussione pubblica stessa.
Cassandra non viene mai presa sul serio.
venerdì 9 ottobre 2009
Michel Houellebecq, Le particelle elementari
Le vite parallele e diversissime di due fratellastri, cresciuti senza conoscersi, accomunati soltanto dall'abbandono della madre, una donna bella ed egocentrica, che fagocita ogni tipo di anti-conformismo e di sperimentazione sessuale post-sessantottina, in un individualismo erotico-sentimentale che non conosce limiti, nemmeno quelli della propria distruzione.
Paragonato alle voci dissacranti e corrosive della letteratura americana - Roth, De Lillo e Auster - Houellebecq è persino più bravo nella costruzione del racconto, un ordito complesso, in cui rientrano questioni diversissime - la storia del nostro secolo, specie dopo i rivolgimenti culturali del '68, l'analisi sociale, la meccanica quantistica e gli scossoni, scientifici e metafisici, che essa ha provocato nell'attuale visione del mondo - tutte maneggiate e tenute insieme con grande cura.
Peccato per gli scivoloni moralistici, le fascinazioni idealistiche che vorrebbero talvolta correggere la storia, il sovrapporsi di un rancore oscuro e privato che trasforma il narratore in un fustigatore di costumi, colmo di bile, lontano dal sereno distacco dell'ironia.
E così sembra che Houellebecq sia più interessato a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, a sistemare una faccenda privata...
Paragonato alle voci dissacranti e corrosive della letteratura americana - Roth, De Lillo e Auster - Houellebecq è persino più bravo nella costruzione del racconto, un ordito complesso, in cui rientrano questioni diversissime - la storia del nostro secolo, specie dopo i rivolgimenti culturali del '68, l'analisi sociale, la meccanica quantistica e gli scossoni, scientifici e metafisici, che essa ha provocato nell'attuale visione del mondo - tutte maneggiate e tenute insieme con grande cura.
Peccato per gli scivoloni moralistici, le fascinazioni idealistiche che vorrebbero talvolta correggere la storia, il sovrapporsi di un rancore oscuro e privato che trasforma il narratore in un fustigatore di costumi, colmo di bile, lontano dal sereno distacco dell'ironia.
E così sembra che Houellebecq sia più interessato a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, a sistemare una faccenda privata...
Simonetta Agnello Hornby, La zia marchesa
Un libro per stomaci capaci, per famelici ingordi pronti alla grande abbuffata.
Fine Ottocento, Sicilia aspra, calda, selvaggia e desolata, come lo sguardo di Amalia, la balia di Costanza, la “criata” di casa Safamita, che trascorre i suoi giorni lenti, faticosi e sempre uguali incastrata nelle grotte della Montagnazza insieme a sua nipote, Pinuzza. Unico passatempo il racconto degli anni trascorsi a servizio, a tirar su quella bambina strana, rossa di pelo, spuntata fuori da non si sa dove, al cui destino si legano le sorti di un’intera famiglia, generazioni di “padroni”, nobili oziosi e indolenti, abituati a comandare, scalzati - poco alla volta, ma inesorabilmente - dai nuovi potenti, politici e mafiosi, con cui, per sopravvivere, bisogna scendere a patti. Sullo sfondo, caparbio, ostinato, il colpo d’occhio degli ultimi, il fatalismo rassegnato di chi sa che tutto cambia per rimanere uguale. Le increspature di superficie non coinvolgono gli abissi a loro assegnati e con questa consapevolezza, appiccicata addosso, osservano le vicende dei padroni, i crucci e gli affanni di quei pupi in crinolina, che soffrono, sì, ma non hanno dolori.
La trama gattopardesca e l’influenza linguistica evidente, dichiarata, di Camilleri denunciano la “sicilianità” del libro, il suo inserirsi al termine di una determinata linea genealogica. Prova ne è il fatto che la zia marchesa è realmente esistita. Lontana parente della Hornby, di cui tutti in famiglia parlavano malissimo - a partire da quel suo strano colore di capelli, foriero solo di guai - la marchesa è già stata protagonista di una novella, niente popò di meno che di Pirandello, Tutt’e tre, che ne fissa il ricordo negativo da cui Hornby vuole riscattarla.
Eppure, al di là dei debiti innegabili nei confronti di predecessori così ingombranti, questo romanzo non è affatto il tardo epigono di una ben più florida stagione letteraria. Non credo si possa dire, come ho letto in qualche recensione, che si tratta di “un neo-feuilleton di trama infinita ed estenuante,… un romanzo di trama, di personaggi, di architettura professionale”, ma non un “romanzo di ricerca”, (…che poi bisognerebbe sapere cos’è un romanzo di ricerca senza trama, personaggi, dialoghi, narrazione, descrizioni, tutte cose in cui la Hornby si dimostra straordinariamente capace).
Sparita l’eleganza altera e, a tratti, compiaciuta di Tomasi di Lampedusa, la grazia e la leggerezza del siciliano arioso di Camilleri, la Hornby è impietosa e lucida nell’analisi. Greve, terrestre, aspra e impastata la lingua, debordante il fraseggio, smisurata la trama.
L’incomprensibile irrazionalità di un popolo che ride delle tragedie e fa drammi per niente, le radici antiche di una mentalità non completamente decifrabile e neppure superata, al centro della ricerca. Senza reticenze o giustificazioni posticce, rivestimenti mitologici né scuse per nessuno.
Fine Ottocento, Sicilia aspra, calda, selvaggia e desolata, come lo sguardo di Amalia, la balia di Costanza, la “criata” di casa Safamita, che trascorre i suoi giorni lenti, faticosi e sempre uguali incastrata nelle grotte della Montagnazza insieme a sua nipote, Pinuzza. Unico passatempo il racconto degli anni trascorsi a servizio, a tirar su quella bambina strana, rossa di pelo, spuntata fuori da non si sa dove, al cui destino si legano le sorti di un’intera famiglia, generazioni di “padroni”, nobili oziosi e indolenti, abituati a comandare, scalzati - poco alla volta, ma inesorabilmente - dai nuovi potenti, politici e mafiosi, con cui, per sopravvivere, bisogna scendere a patti. Sullo sfondo, caparbio, ostinato, il colpo d’occhio degli ultimi, il fatalismo rassegnato di chi sa che tutto cambia per rimanere uguale. Le increspature di superficie non coinvolgono gli abissi a loro assegnati e con questa consapevolezza, appiccicata addosso, osservano le vicende dei padroni, i crucci e gli affanni di quei pupi in crinolina, che soffrono, sì, ma non hanno dolori.
La trama gattopardesca e l’influenza linguistica evidente, dichiarata, di Camilleri denunciano la “sicilianità” del libro, il suo inserirsi al termine di una determinata linea genealogica. Prova ne è il fatto che la zia marchesa è realmente esistita. Lontana parente della Hornby, di cui tutti in famiglia parlavano malissimo - a partire da quel suo strano colore di capelli, foriero solo di guai - la marchesa è già stata protagonista di una novella, niente popò di meno che di Pirandello, Tutt’e tre, che ne fissa il ricordo negativo da cui Hornby vuole riscattarla.
Eppure, al di là dei debiti innegabili nei confronti di predecessori così ingombranti, questo romanzo non è affatto il tardo epigono di una ben più florida stagione letteraria. Non credo si possa dire, come ho letto in qualche recensione, che si tratta di “un neo-feuilleton di trama infinita ed estenuante,… un romanzo di trama, di personaggi, di architettura professionale”, ma non un “romanzo di ricerca”, (…che poi bisognerebbe sapere cos’è un romanzo di ricerca senza trama, personaggi, dialoghi, narrazione, descrizioni, tutte cose in cui la Hornby si dimostra straordinariamente capace).
Sparita l’eleganza altera e, a tratti, compiaciuta di Tomasi di Lampedusa, la grazia e la leggerezza del siciliano arioso di Camilleri, la Hornby è impietosa e lucida nell’analisi. Greve, terrestre, aspra e impastata la lingua, debordante il fraseggio, smisurata la trama.
L’incomprensibile irrazionalità di un popolo che ride delle tragedie e fa drammi per niente, le radici antiche di una mentalità non completamente decifrabile e neppure superata, al centro della ricerca. Senza reticenze o giustificazioni posticce, rivestimenti mitologici né scuse per nessuno.
Stéphane Audeguy, La teoria delle nuvole
Sereno, velato, con qualche addensamento, il romanzo rivelazione di questo giovane scrittore francese scorre senza lasciare tracce significative del suo passaggio. Né impetuose tempeste, né abbacinanti giornate di sole. Una calma piatta, avvolta da una leggera foschia, che rende impossibile mettere a fuoco alcunché.
Diafani e inconsistenti i due protagonisti – Akira Kumo, un vecchio stilista giapponese trapiantato a Parigi, con un passato oscuro e uno strano interesse per la meteorologia, e Virginie Latour, la giovane bibliotecaria che si occupa delle sua collezione di opere sull’argomento e che, poco alla volta, ne conquista la fiducia – due sconosciuti fino alla fine, attorno a cui si intrecciano le storie di alcuni pionieri della scienza delle nuvole, vere e proprie incursioni nella trama principale, mai annunciate né portate a termine, rese ancor meno riconoscibili per la scelta, puntigliosa e irritante, del tempo presente, l’unico tempo, dilatato, in cui si svolge la narrazione.
Audeguy ci serve nel piatto un paio di ingredienti, a quanto pare, graditi al palato francese – la fascinazione per il sol levante, già assaporata nel romanzo della Barbery, l’insistenza su un erotismo morboso e cervellotico, una rivisitazione della tradizionale salsina psico-analitica, il gusto per una scrittura piana, chiara, pulita, “très chic”, anche se un po’ insipida – ma non riesce a farne un amalgama convincente.
Gli spunti narrativi più interessanti – il passato che Akira ha cancellato, l’originale composizione di piani, che dalla teoria delle nuvole ci porta fino alla nuvola più tremenda e aberrante, a Hiroshima - vengono annacquati, disciolti in un’atmosfera fredda e rarefatta, che sfiora soltanto le cose, senza abbracciarle. Deludente.
Diafani e inconsistenti i due protagonisti – Akira Kumo, un vecchio stilista giapponese trapiantato a Parigi, con un passato oscuro e uno strano interesse per la meteorologia, e Virginie Latour, la giovane bibliotecaria che si occupa delle sua collezione di opere sull’argomento e che, poco alla volta, ne conquista la fiducia – due sconosciuti fino alla fine, attorno a cui si intrecciano le storie di alcuni pionieri della scienza delle nuvole, vere e proprie incursioni nella trama principale, mai annunciate né portate a termine, rese ancor meno riconoscibili per la scelta, puntigliosa e irritante, del tempo presente, l’unico tempo, dilatato, in cui si svolge la narrazione.
Audeguy ci serve nel piatto un paio di ingredienti, a quanto pare, graditi al palato francese – la fascinazione per il sol levante, già assaporata nel romanzo della Barbery, l’insistenza su un erotismo morboso e cervellotico, una rivisitazione della tradizionale salsina psico-analitica, il gusto per una scrittura piana, chiara, pulita, “très chic”, anche se un po’ insipida – ma non riesce a farne un amalgama convincente.
Gli spunti narrativi più interessanti – il passato che Akira ha cancellato, l’originale composizione di piani, che dalla teoria delle nuvole ci porta fino alla nuvola più tremenda e aberrante, a Hiroshima - vengono annacquati, disciolti in un’atmosfera fredda e rarefatta, che sfiora soltanto le cose, senza abbracciarle. Deludente.
Francesco Piccolo, La separazione del maschio
Il maschio che racconta questa storia, la sua storia, è dotato di spirito d’osservazione, disarmante sincerità e totale disprezzo per qualsiasi forma di auto-compiacimento. Con questo maschio si può parlare – è già qualcosa - anzi talvolta è sorprendente, quasi inquietante, quanto in certe cose ci somigliamo.
È sposato e ha una figlia. È un buon padre, attento e disponibile, premuroso, non come quelli di una volta, distratti, assenti o irraggiungibili, sempre sulle difensive. È persino un buon marito, se si trascura per un po’ una serie di “dettagli” di cui parlerò a breve. Sta all’erta, sa che niente è per sempre, per questo si preoccupa di Teresa, la osserva, cerca di indovinarne i pensieri per darle ancora, giorno dopo giorno, buoni motivi per stare con lui. Certo non è perfetto, a volte s’incupisce per niente e spesso è lontano da casa, rintanato nella sala di montaggio, in cui lavora per ore, al buio, dissenzionando scene per ricreare un altro film, quella versione rivista e corretta, riassemblata, tradita o migliorata, che noi vediamo nelle sale.
Nel tempo libero questo maschio scopa altre donne. Non moltissime, sempre le stesse, salvo qualche sporadica new entry. Non vuole avventure, si affeziona, stabilisce rapporti duraturi, chiacchiera e raccoglie confidenze. Le studia con scrupolosa attenzione per riconoscere i tratti ricorrenti del suo desiderio sessuale nell’evidente diversità di ognuna. Non può rinunciare a nessuna, sono loro ad esser libere di lasciarlo. Sa che queste vite parallele prima o poi si insinueranno nella realtà, facendola deflagrare, mandando all’aria la famiglia, per cui vive e che ama, nonostante tutto, l’atmosfera calda e rilassante, quella noia confortante che solo tra le quattro pareti di casa propria si può provare. Sa, ma non può farci niente e poi tutto va come non t’aspetteresti.
Non è in crisi, né prova sensi di colpa. Ha imparato dal cinema - dall’immagine in movimento che doveva aiutarci a comprendere la durata - l’arte della separazione, del frammento, del ritaglio, della giustapposizione di scene provvisorie, riproducibili che si proiettano sempre altrove. Non l’io esplode, ma il mondo: di mondi ce ne sono tanti, paralleli e ignari l’uno dell’altro, rare e occasionali le comunicazioni, gli snodi fortuiti e ininfluenti, impossibile sentirsi in colpa se non si abita lo stesso mondo.
Non è uno stinco di santo, ma con questo maschio non riesco ad arrabbiarmi. Si auto-denuncia, ammette che “il suo immaginario erotico è elementare, di primo grado – una specie di modello base: l’immaginario erotico del maschio meridionale, il punto più basso della scala evolutiva della contemporaneità, probabilmente”.
Da qui, forse, può partire la conversazione.
È sposato e ha una figlia. È un buon padre, attento e disponibile, premuroso, non come quelli di una volta, distratti, assenti o irraggiungibili, sempre sulle difensive. È persino un buon marito, se si trascura per un po’ una serie di “dettagli” di cui parlerò a breve. Sta all’erta, sa che niente è per sempre, per questo si preoccupa di Teresa, la osserva, cerca di indovinarne i pensieri per darle ancora, giorno dopo giorno, buoni motivi per stare con lui. Certo non è perfetto, a volte s’incupisce per niente e spesso è lontano da casa, rintanato nella sala di montaggio, in cui lavora per ore, al buio, dissenzionando scene per ricreare un altro film, quella versione rivista e corretta, riassemblata, tradita o migliorata, che noi vediamo nelle sale.
Nel tempo libero questo maschio scopa altre donne. Non moltissime, sempre le stesse, salvo qualche sporadica new entry. Non vuole avventure, si affeziona, stabilisce rapporti duraturi, chiacchiera e raccoglie confidenze. Le studia con scrupolosa attenzione per riconoscere i tratti ricorrenti del suo desiderio sessuale nell’evidente diversità di ognuna. Non può rinunciare a nessuna, sono loro ad esser libere di lasciarlo. Sa che queste vite parallele prima o poi si insinueranno nella realtà, facendola deflagrare, mandando all’aria la famiglia, per cui vive e che ama, nonostante tutto, l’atmosfera calda e rilassante, quella noia confortante che solo tra le quattro pareti di casa propria si può provare. Sa, ma non può farci niente e poi tutto va come non t’aspetteresti.
Non è in crisi, né prova sensi di colpa. Ha imparato dal cinema - dall’immagine in movimento che doveva aiutarci a comprendere la durata - l’arte della separazione, del frammento, del ritaglio, della giustapposizione di scene provvisorie, riproducibili che si proiettano sempre altrove. Non l’io esplode, ma il mondo: di mondi ce ne sono tanti, paralleli e ignari l’uno dell’altro, rare e occasionali le comunicazioni, gli snodi fortuiti e ininfluenti, impossibile sentirsi in colpa se non si abita lo stesso mondo.
Non è uno stinco di santo, ma con questo maschio non riesco ad arrabbiarmi. Si auto-denuncia, ammette che “il suo immaginario erotico è elementare, di primo grado – una specie di modello base: l’immaginario erotico del maschio meridionale, il punto più basso della scala evolutiva della contemporaneità, probabilmente”.
Da qui, forse, può partire la conversazione.
martedì 6 ottobre 2009
Logica mente, se usata con malizia
Leggi l’articolo di Vittorio Macioce sul Giornale, “Rai, se i censori ora censurano Minzolini” e per un attimo, così fuori contesto, sembra persino plausibile, sensato. Tira in ballo la logica e il caro Bertrand Russell per palesare un’evidente contraddizione. E già, sostiene l’arguto commentatore, i paladini della libertà di stampa e d’espressione, pronti a mobilitarsi per far andare in onda Santoro, pretendono invece di zittire Minzolini, per il solo fatto che non la pensa come loro. Ammirevole integrità, bella coerenza!
Provi a resistere all’attacco, a fare qualche distinguo, chessò formale - una cosa è il telegiornale e altra l’approfondimento – e subito reagiscono.
Vuoi forse dire che il tg deve essere “imparziale” mentre gli altri hanno diritto ad avere un’opinione? Ma è un falso mito l’imparzialità, ognuno occupa un posticino nel mondo, da lì guarda le cose e le racconta.
Rilanci. E l’istituzionalità?
Beh, non è la prima volta che il direttore del tg1 fa un suo editoriale, uno strumento con cui non racconta un fatto, dice come la pensa.
Dai uno sguardo su youtube, trovi qualche precedente - le dimissioni di Riotta, quelle di Lerner, ancora Gad che agita un foglietto, denunciando pressioni per qualche assunzione, uno molto cliccato della Busi (che direttore non era) sul caso di Maria, la bimba bielorussa – insomma commenti sulla propria esperienza professionale o su notizie che colpiscono l’opinione pubblica, nessun parere personale direttamente legato alla vita politica del paese.
Quindi, diciamo, è irrituale, ma non vorrai pretendere di fissare una volta per tutte l’elenco degli argomenti discutibili in un telegiornale?
Arranchi. E il pluralismo?
Sì, in effetti la situazione dell’informazione in Italia è alquanto anomala, il capo del governo possiede il più importante network televisivo del paese, è un editore, ha più di un giornale e per di più controlla il servizio pubblico, ma Minzolini non è il garante. Non è mica colpa sua l’attuale assetto e che può farci se è d’accordo con la maggioranza?
In ogni caso, è quanto meno, inopportuno. Conosce il quadro e alza volutamente il tiro. E come la mettiamo con la collegialità? La redazione del suo tg non sapeva di questa presa di posizione e tanto meno la condivideva.
Indelicato, si può esser d’accordo, ma parlava a titolo personale e comunque gli altri redattori hanno potuto fare un comunicato per dissentire, no?
Spazientita ricominci daccapo, rileggi l’articolo, ripensi a cosa hai fatto.
Ecco il busillis, qui si confonde critica e censura! Perché è chiaro che essere a favore della libertà d’espressione non ti impegna affatto ad essere d’accordo con gli altri, fossero anche la maggioranza, in ogni singola discussione di merito. Ti riservi il diritto alla critica, proprio quello che hai esercitato, producendo anche qualche discreta ragione per contestare la scelta di Minzolini.
La censura è un altro mestiere. Innanzitutto devi sapere prima cosa ha intenzione di dire il tuo avversario (così, per ipotesi, un giornalista che ti è sgradito). Poi devi essere abbastanza potente, devi avere i mezzi per tentar d’impedire che esprima il suo parere, magari facendo pressioni sul suo capo, mettendo in forse i contratti dei suoi collaboratori. Oppure, con un po’ di anticipo, puoi montare una campagna contro di lui dalle colonne dei tuoi giornali, dalle scrivanie di direttori compiacenti, screditando in partenza il suo punto di vista in modo che sembri legittima la sua eventuale defenestrazione, una richiesta popolare. O magari puoi fare entrambe le cose.
Tiri un sospiro di sollievo. La logica funziona, ma qui c’è il trucco.
p.s.: grazie a Michele per aver alimentato la discussione e a Rony (che non conosco) per la soluzione del rebus.
Provi a resistere all’attacco, a fare qualche distinguo, chessò formale - una cosa è il telegiornale e altra l’approfondimento – e subito reagiscono.
Vuoi forse dire che il tg deve essere “imparziale” mentre gli altri hanno diritto ad avere un’opinione? Ma è un falso mito l’imparzialità, ognuno occupa un posticino nel mondo, da lì guarda le cose e le racconta.
Rilanci. E l’istituzionalità?
Beh, non è la prima volta che il direttore del tg1 fa un suo editoriale, uno strumento con cui non racconta un fatto, dice come la pensa.
Dai uno sguardo su youtube, trovi qualche precedente - le dimissioni di Riotta, quelle di Lerner, ancora Gad che agita un foglietto, denunciando pressioni per qualche assunzione, uno molto cliccato della Busi (che direttore non era) sul caso di Maria, la bimba bielorussa – insomma commenti sulla propria esperienza professionale o su notizie che colpiscono l’opinione pubblica, nessun parere personale direttamente legato alla vita politica del paese.
Quindi, diciamo, è irrituale, ma non vorrai pretendere di fissare una volta per tutte l’elenco degli argomenti discutibili in un telegiornale?
Arranchi. E il pluralismo?
Sì, in effetti la situazione dell’informazione in Italia è alquanto anomala, il capo del governo possiede il più importante network televisivo del paese, è un editore, ha più di un giornale e per di più controlla il servizio pubblico, ma Minzolini non è il garante. Non è mica colpa sua l’attuale assetto e che può farci se è d’accordo con la maggioranza?
In ogni caso, è quanto meno, inopportuno. Conosce il quadro e alza volutamente il tiro. E come la mettiamo con la collegialità? La redazione del suo tg non sapeva di questa presa di posizione e tanto meno la condivideva.
Indelicato, si può esser d’accordo, ma parlava a titolo personale e comunque gli altri redattori hanno potuto fare un comunicato per dissentire, no?
Spazientita ricominci daccapo, rileggi l’articolo, ripensi a cosa hai fatto.
Ecco il busillis, qui si confonde critica e censura! Perché è chiaro che essere a favore della libertà d’espressione non ti impegna affatto ad essere d’accordo con gli altri, fossero anche la maggioranza, in ogni singola discussione di merito. Ti riservi il diritto alla critica, proprio quello che hai esercitato, producendo anche qualche discreta ragione per contestare la scelta di Minzolini.
La censura è un altro mestiere. Innanzitutto devi sapere prima cosa ha intenzione di dire il tuo avversario (così, per ipotesi, un giornalista che ti è sgradito). Poi devi essere abbastanza potente, devi avere i mezzi per tentar d’impedire che esprima il suo parere, magari facendo pressioni sul suo capo, mettendo in forse i contratti dei suoi collaboratori. Oppure, con un po’ di anticipo, puoi montare una campagna contro di lui dalle colonne dei tuoi giornali, dalle scrivanie di direttori compiacenti, screditando in partenza il suo punto di vista in modo che sembri legittima la sua eventuale defenestrazione, una richiesta popolare. O magari puoi fare entrambe le cose.
Tiri un sospiro di sollievo. La logica funziona, ma qui c’è il trucco.
p.s.: grazie a Michele per aver alimentato la discussione e a Rony (che non conosco) per la soluzione del rebus.
domenica 4 ottobre 2009
Anno zero. Punto e a capo
E così mi appresto anch’io a dire qualche ovvietà su Santoro e il polverone scatenatosi attorno alla sua intervista alla D’Addario. Che l’argomento attragga anche i non addetti ai lavori e i meno appassionati, quelli a cui non interessa troppo la politica e guardano (o dicono di guardare) poca tv, è sotto gli occhi di tutti. Da un po’ di giorni, ad esempio, su feisbuc è un continuo tam tam di pareri alternati, di grida allo scandalo per l’indecenza del servizio pubblico (particolarmente indignate alcune donne) e di difese veementi, persino accorate, in cui anch’io mi sono esercitata.
Personalmente, s’è capito, non vedo lo scandalo. Pur non reputando la signorina in questione un modello di integrità, non capisco perché non possa andare in tv a raccontare la sua storia. Dal punto di vista giornalistico la notizia c’è - il caso Tarantini non l’ha inventato Santoro - e finora tanto è bastato per intervistare assassini, stupratori, bombaroli, mafiosi, insomma una variegata sarabanda di campioni della moralità. Ma tant’è, molti non approvano, né voglio provare a convincerli in questa occasione.
Santoro non è interessato agli aspetti giuridici dell’affaire Tarantini, ma a quelli legati all’etica pubblica, alla vita politica e, direi, sociale del paese. Ed è interessato a Berlusconi. In pratica ci chiede se possiamo ignorare quello che è venuto fuori negli ultimi mesi.
Queste, grosso modo, le sue domande: possiamo concedere al nostro presidente del consiglio, in aggiunta all’immunità giuridica (in via di approvazione), quella morale? Possiamo far finta di credere che sia plausibile che un rappresentante delle istituzioni ceni a casa sua con delle emerite sconosciute, il cui unico tratto comune è l’essere giovani e belle, convinto che siano lì per caso? È normale che un capo di governo sia abbordabile da strani personaggi, come Tarantini, indagato a Bari da tempo e, a colpo d’occhio, a dir poco pittoresco, senza che lui o un uomo del suo staff abbiano il benché minimo dubbio sull’opportunità di queste frequentazioni? Davvero non è di pubblico interesse che queste simpatiche ragazze, tanto stimate dal premier, finiscano poi a lavorare per la rai o a mediaset (quasi fosse la stessa cosa) o, peggio, nelle liste elettorali del suo partito? Contro quest’uso personalistico del partito non dovrebbe sollevarsi in primo luogo il suo elettorato, quell’elettorato che invece si scandalizza per la D’Addario in tv?(Perché un fatto è certo, la prima legittimazione alle escort viene dalle candidature, non certo dall’intervista di Santoro, e a sinistra abbiamo fatto fuori leader per molto meno.)
Segnalo che Santoro, ovviamente, non è il primo a porre tali questioni e che, a rigore, per affrontare questi temi, i dettagli che può rivelare Patrizia sono assolutamente ininfluenti. Il clamore scatenatosi attorno alla risposta “sì, sapeva che ero un’escort” è assolutamente ingiustificato. L’aveva già detto, sempre un po’ evasiva, e questa dichiarazione (tra l’atro non isolata) aggiunge poco o niente al quadretto, che, ricordo, è il seguente: un attempato signore, che di mestiere fa il capo del governo, a cena, con due o tre amici di vecchia data e una ventina di allegre ragazzotte, ragazzotte che poi ritroviamo in tv (e qui conferma Saccà) o in liste elettorali (qui Fini). C’è veramente poco da equivocare. Qui Santoro fa il furbo e si gioca la sua carta. Fondamentalmente rimette in scena, con qualche colpo di teatro, una storia che già conosciamo.
Altrettanto banalmente Santoro ha una risposta a tutte le sue domande, è di parte e non fa niente per mascherarlo. Semplicemente invita qualcuno che non la pensa come lui, perché controbatta le sue tesi o approvi con riserva. Si può contestare la scelta degli argomenti, ma al dunque è lui l’autore del programma, è lui che decide di cosa discutere e i suoi ospiti, o i telespettatori che lo seguono da casa, possono, al massimo, fargli qualche appunto o decidere di cambiare canale, non possono imporgli un tema diverso. Molte volte davanti al plastico di Cogne, a inquietanti interrogativi come “zoccolo o mestolo?”, a approfondite disquisizioni sulla storia di miss Italia, a minuziose analisi della personalità di Alberto Stasi, ho sperato, persino pregato, che cambiassero argomento, che qualcuno si levasse indignato perché “ben altre sono le questioni che interessano al paese”, ma ho dovuto arrendermi all’evidenza. Non funziona così e ho finito col considerare anche questa una banalità.
Invece qui saltano gli schemi e la musica cambia. Perché non soltanto assistiamo a prese di posizioni politiche, a pesanti ingerenze per delegittimare le scelte di Santoro e impedirne la messa in onda. Quand’anche il programma si faccia (e s’è fatto) lo si manda all’aria dall’interno, rifiutando, sistematicamente, di affrontare il terreno di discussione che gli è proprio. È questa la strategia di alcuni professionisti del depistaggio argomentativo, come Belpietro, piuttosto convincenti in questa operazione. Restituire al mittente le questioni politiche poste da Santoro, spostandosi sul terreno dell’inchiesta giudiziaria (che merita di essere discussa, ma, come ho detto prima, non è oggetto della puntata).
Quel che colpisce, però, è che questo disprezzo automatico per regole minime dell’argomentazione, come la pertinenza, viene riproposto dai giovani che Michele invita. Non voglio nemmeno commentare la performance della Montaruli, la ragazza dei circoli di Silvio, che non riusciva a prendere fiato mentre sciorinava i nuovi slogan contro il pd, senza preoccuparsi minimamente della loro attinenza con le questioni discusse. Vorrei, invece, spendere due parole sulla femminista bolognese (di cui non ricordo il nome), che a Sansonetti (molto critico nei confronti della “tivvù spazzatura” di Santoro) è piaciuta proprio per gli stessi motivi per i quali io rabbrividisco. Pizzicata dalla Latella per un top scollato, che una femminista degli anni ’70 non avrebbe mai portato, la signorina rimarca le distanze dal femminismo alla vecchia, dicendo di essere “ben felice” che le donne vadano più scoperte (e qui glissa rapidamente, ma bisognerebbe essere più precise; io, ad esempio, sono ben felice di vestirmi come mi pare, ma mica tanto felice della filippona a “striscia la notizia”). Comunque, interrogata su cosa pensa delle questioni emerse nel caso Tarantini in relazione alla sua esperienza femminista, invece di cogliere il gancio della Latella sul lavoro precario delle donne, sui salari ridicoli, guadagnati a fatica, a fronte dei 1000 euro che una ragazza immagine porta a casa in una sera, incredibilmente, comincia a recitare la litania del femminismo più datato, la condizione delle casalinghe e l’aborto. Resto interdetta: e cosa c’entra? A parte il fatto che le casalinghe sono in via di estinzione tra le giovani donne, possibile che non ci sia nulla di più pertinente ed efficace da tirare fuori in questo momento? È tutto qua il new feminism? Non credo e fa specie che Sansonetti si esalti per così poco.
È evidente che il ragionamento a vanvera, la disaffezione per una discussione circostanziata, che analizzi una cosa per volta, la partigianeria acritica e rissosa, il muro contro muro, completamente svincolato dalle questioni di merito, dall’oggetto delle nostre conversazioni, prevale sia a destra che a sinistra, tanto più quando si parla del nostro caro premier.
È qui sta l’impasse del programma, Michele. Perché ne puoi fare pure 100 di puntate come questa. Finché le cose stanno così, fino a quando gli ospiti in studio, i contraddittori di mestiere e le nuove generazioni che si affacciano alla mischia, si sentiranno autorizzati a sparare a casaccio, in base all'assunto che l'argomento da te proposto è illegittimo o insufficiente (quindi tanto vale parlar d'altro) siamo sempre punto e a capo.
Personalmente, s’è capito, non vedo lo scandalo. Pur non reputando la signorina in questione un modello di integrità, non capisco perché non possa andare in tv a raccontare la sua storia. Dal punto di vista giornalistico la notizia c’è - il caso Tarantini non l’ha inventato Santoro - e finora tanto è bastato per intervistare assassini, stupratori, bombaroli, mafiosi, insomma una variegata sarabanda di campioni della moralità. Ma tant’è, molti non approvano, né voglio provare a convincerli in questa occasione.
Santoro non è interessato agli aspetti giuridici dell’affaire Tarantini, ma a quelli legati all’etica pubblica, alla vita politica e, direi, sociale del paese. Ed è interessato a Berlusconi. In pratica ci chiede se possiamo ignorare quello che è venuto fuori negli ultimi mesi.
Queste, grosso modo, le sue domande: possiamo concedere al nostro presidente del consiglio, in aggiunta all’immunità giuridica (in via di approvazione), quella morale? Possiamo far finta di credere che sia plausibile che un rappresentante delle istituzioni ceni a casa sua con delle emerite sconosciute, il cui unico tratto comune è l’essere giovani e belle, convinto che siano lì per caso? È normale che un capo di governo sia abbordabile da strani personaggi, come Tarantini, indagato a Bari da tempo e, a colpo d’occhio, a dir poco pittoresco, senza che lui o un uomo del suo staff abbiano il benché minimo dubbio sull’opportunità di queste frequentazioni? Davvero non è di pubblico interesse che queste simpatiche ragazze, tanto stimate dal premier, finiscano poi a lavorare per la rai o a mediaset (quasi fosse la stessa cosa) o, peggio, nelle liste elettorali del suo partito? Contro quest’uso personalistico del partito non dovrebbe sollevarsi in primo luogo il suo elettorato, quell’elettorato che invece si scandalizza per la D’Addario in tv?(Perché un fatto è certo, la prima legittimazione alle escort viene dalle candidature, non certo dall’intervista di Santoro, e a sinistra abbiamo fatto fuori leader per molto meno.)
Segnalo che Santoro, ovviamente, non è il primo a porre tali questioni e che, a rigore, per affrontare questi temi, i dettagli che può rivelare Patrizia sono assolutamente ininfluenti. Il clamore scatenatosi attorno alla risposta “sì, sapeva che ero un’escort” è assolutamente ingiustificato. L’aveva già detto, sempre un po’ evasiva, e questa dichiarazione (tra l’atro non isolata) aggiunge poco o niente al quadretto, che, ricordo, è il seguente: un attempato signore, che di mestiere fa il capo del governo, a cena, con due o tre amici di vecchia data e una ventina di allegre ragazzotte, ragazzotte che poi ritroviamo in tv (e qui conferma Saccà) o in liste elettorali (qui Fini). C’è veramente poco da equivocare. Qui Santoro fa il furbo e si gioca la sua carta. Fondamentalmente rimette in scena, con qualche colpo di teatro, una storia che già conosciamo.
Altrettanto banalmente Santoro ha una risposta a tutte le sue domande, è di parte e non fa niente per mascherarlo. Semplicemente invita qualcuno che non la pensa come lui, perché controbatta le sue tesi o approvi con riserva. Si può contestare la scelta degli argomenti, ma al dunque è lui l’autore del programma, è lui che decide di cosa discutere e i suoi ospiti, o i telespettatori che lo seguono da casa, possono, al massimo, fargli qualche appunto o decidere di cambiare canale, non possono imporgli un tema diverso. Molte volte davanti al plastico di Cogne, a inquietanti interrogativi come “zoccolo o mestolo?”, a approfondite disquisizioni sulla storia di miss Italia, a minuziose analisi della personalità di Alberto Stasi, ho sperato, persino pregato, che cambiassero argomento, che qualcuno si levasse indignato perché “ben altre sono le questioni che interessano al paese”, ma ho dovuto arrendermi all’evidenza. Non funziona così e ho finito col considerare anche questa una banalità.
Invece qui saltano gli schemi e la musica cambia. Perché non soltanto assistiamo a prese di posizioni politiche, a pesanti ingerenze per delegittimare le scelte di Santoro e impedirne la messa in onda. Quand’anche il programma si faccia (e s’è fatto) lo si manda all’aria dall’interno, rifiutando, sistematicamente, di affrontare il terreno di discussione che gli è proprio. È questa la strategia di alcuni professionisti del depistaggio argomentativo, come Belpietro, piuttosto convincenti in questa operazione. Restituire al mittente le questioni politiche poste da Santoro, spostandosi sul terreno dell’inchiesta giudiziaria (che merita di essere discussa, ma, come ho detto prima, non è oggetto della puntata).
Quel che colpisce, però, è che questo disprezzo automatico per regole minime dell’argomentazione, come la pertinenza, viene riproposto dai giovani che Michele invita. Non voglio nemmeno commentare la performance della Montaruli, la ragazza dei circoli di Silvio, che non riusciva a prendere fiato mentre sciorinava i nuovi slogan contro il pd, senza preoccuparsi minimamente della loro attinenza con le questioni discusse. Vorrei, invece, spendere due parole sulla femminista bolognese (di cui non ricordo il nome), che a Sansonetti (molto critico nei confronti della “tivvù spazzatura” di Santoro) è piaciuta proprio per gli stessi motivi per i quali io rabbrividisco. Pizzicata dalla Latella per un top scollato, che una femminista degli anni ’70 non avrebbe mai portato, la signorina rimarca le distanze dal femminismo alla vecchia, dicendo di essere “ben felice” che le donne vadano più scoperte (e qui glissa rapidamente, ma bisognerebbe essere più precise; io, ad esempio, sono ben felice di vestirmi come mi pare, ma mica tanto felice della filippona a “striscia la notizia”). Comunque, interrogata su cosa pensa delle questioni emerse nel caso Tarantini in relazione alla sua esperienza femminista, invece di cogliere il gancio della Latella sul lavoro precario delle donne, sui salari ridicoli, guadagnati a fatica, a fronte dei 1000 euro che una ragazza immagine porta a casa in una sera, incredibilmente, comincia a recitare la litania del femminismo più datato, la condizione delle casalinghe e l’aborto. Resto interdetta: e cosa c’entra? A parte il fatto che le casalinghe sono in via di estinzione tra le giovani donne, possibile che non ci sia nulla di più pertinente ed efficace da tirare fuori in questo momento? È tutto qua il new feminism? Non credo e fa specie che Sansonetti si esalti per così poco.
È evidente che il ragionamento a vanvera, la disaffezione per una discussione circostanziata, che analizzi una cosa per volta, la partigianeria acritica e rissosa, il muro contro muro, completamente svincolato dalle questioni di merito, dall’oggetto delle nostre conversazioni, prevale sia a destra che a sinistra, tanto più quando si parla del nostro caro premier.
È qui sta l’impasse del programma, Michele. Perché ne puoi fare pure 100 di puntate come questa. Finché le cose stanno così, fino a quando gli ospiti in studio, i contraddittori di mestiere e le nuove generazioni che si affacciano alla mischia, si sentiranno autorizzati a sparare a casaccio, in base all'assunto che l'argomento da te proposto è illegittimo o insufficiente (quindi tanto vale parlar d'altro) siamo sempre punto e a capo.
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