sabato 25 settembre 2010

Roberto Bolaño, 2666, secondo volume

Chiunque cerchi svago, divertimento, riflessione sì, ma condita da un velo d’ironia, una strizzatina d’occhio ogni tanto, può tenersi alla larga da questo romanzo.
2666 è un’opera mastodontica, eccessiva, implacabile, per certi versi mostruosa. Non di meno, se, al termine della lettura del primo volume e dopo il breve interludio di Stella distante, mi ero convinta che i romanzi brevi di Bolaño fossero meglio, quanto meno per prendere le misure, ora ho cambiato parere. Di 2666 si continuerà a parlare, ognuna delle sue 1105 pagine continuerà a parlare ancora per molto, di qui bisogna passare prima o poi. Tanto vale cimentarsi e accada quel che accada!
Per me è stata dura, ne esco stremata come dopo una lunga apnea, trasformata anch’io nel bambino-alga che salta fuori a un certo punto del racconto, quasi a ricordarmi chi sono mentre leggo, quale parte ho nella narrazione, che tutto era previsto, nulla affidato al caso, compreso il mio bisogno impellente di venir fuori a prendere aria, la disperazione ingolfata, scomposta, paonazza che mi coglie quasi subito all’inizio del secondo volume, che, poco a poco, si fa serena, a tratti persino piacevole. E alla fine (ma solo alla fine) vorrei ricominciasse daccapo. «Ancora una volta!» come le favole ascoltate da piccoli, i racconti del terrore o le dipendenze, tutte un po’ tossiche, sviluppate qualche anno più in là.
C’è un che di perverso in questa narcosi del lettore nel romanzo, e un che di prodigioso. Bello non è l’aggettivo appropriato per un libro del genere, che forse non è neppure un romanzo ma cinque, e forse non è neppure un romanzo ma una storia universale, dal percorso accidentato, faticoso, a tratti snervante, una selva di incastri, di digressioni narrative, didascaliche, enciclopediche che non vanno da nessuna parte, perché è precisamente lì che devono andare, come nei canti omerici o nell’epopea di Gilgamesh.

Torna a riproporsi la metafora dell’acqua, del racconto fiume che travolge, a ondate e reflussi, in cui è difficile stare a galla. Ne La parte dei delitti, che apre il secondo tomo, mi sono letteralmente impantanata e ho temuto di non sortirne più. I femminicidi di Santa Teresa - città di frontiera nel nord del Messico trasposizione letteraria di Ciudad Juarez dove i fatti in questione accadono davvero, sfondo narrativo della sezione precedente - occupano la scena, diventano oggetto principale del racconto. Oggetto non a caso, dal momento che di ogni singolo evento delittuoso viene offerto un quadretto sintetico e dettagliato, più consono ai toni devitalizzati, professionali e asettici, dei verbali di polizia, dei referti autoptici, delle pagine di cronaca nera. Di bozzetti, contenenti ogni tipo di atrocità, se ne affastellano un bel po’, uno dopo l’altro, centinaia fino a perdere il conto. Tanti che non do più peso alle aberrazioni che leggo, quasi non me ne accorgo, quasi non riconosco più (io, una donna) nell’ennesima morta una mia simile, un’altra donna.
La mia sensibilità si risveglia in certi intermezzi ambientati in carcere. La violenza tra maschi, descritta con dovizia di particolari, mi sembra atroce, insopportabile. Anche questo deve essere voluto, frutto di estrema maestria nella composizione e nel dosaggio, come il gusto per l’elenco, la catalogazione degli orrori, il ritmo ricorsivo, cadenzato, ipnotico, con cui Bolaño ammucchia cadaveri femminili rendendomeli indifferenti. E, tuttavia, è pur sempre noia quella che provo, e della peggior specie, d’una qualità oscena, una noia che non “dovrei” provare.

Torno a prender fiato ne La parte di Arcimboldi. Proprio quando il bambino-alga comincia ad immergersi, per me ha inizio la risalita.
Dentro questo ragazzino schivo e allampanato, che diventa uomo, gigante, sotto i miei occhi, ci stanno due guerre, una generazione, un secolo, i Mari del Nord Europa, le steppe siberiane, il deserto del Sonora, il mondo intero. Tutto condensato in un unico personaggio, un filamento flessibile, esile, lungo e stretto che proprio in virtù della sua adattabilità, del suo anonimato riesce a strisciare, a insinuarsi in situazioni incredibili, costellate da coincidenze siderali, assurde, impensate, che però non puzzano mai di finto, di forzoso o artefatto. Un anonimato il suo che non è mancanza di personalità, ma filtro, amore per il sedimento.
Con i suoi piedi enormi attraverso lande mai viste, per sbucare all’improvviso su incroci già noti, vicoli ciechi che avevo abbandonato e che ora rivelano un passaggio.
Imparo ad amare il timido omaccione, intriso di disciplina prussiana e furore rumeno, fiumi di vodka russa e gelo polare, anche per questo, perché grazie a lui tutto sembra trovare un senso, una precisa collocazione, perché in sua compagnia sembra possibile tornare indietro, rifare la strada, che è costata tanta fatica, evitando, ’sta volta, dubbi e smarrimenti.
Una bugia meravigliosa e tremenda, di cui sono saldamente convinta alla fine, tanto da aver voglia di rituffarmi subito in una seconda lettura. Il trucco finale, l’ultima ironia raffinata e crudele di Bolaño, che racconta un uomo, una storia, il mondo, ma non spiega l’arcano, che di nuovo mi porta, questa volta dolcemente, sfruttando a pieno l’incantamento del racconto, faccia a faccia con l’oscenità e l’abisso.
Chi è l’assassino di tutte quelle donne? Ora che conosco Arcimboldi, che so tutto di lui, posso veramente escludere che c’entri qualcosa? O non accade piuttosto che, avendolo visto da vicino, semplicemente non mi interessa più se sia o meno un assassino, che a viver fianco a fianco a un omicida la questione perda importanza, non significhi nulla perché, come si dice a un certo punto, anche “un assassino, in fondo, è buono”?
Questo al fondo mi sembra il nucleo duro dell’opera di Bolaño, che la letteratura è capace di tali e altre simili atrocità.

giovedì 9 settembre 2010

Nel paese Dei bendati

Caso e fortuna vanno a braccetto, anche se ovviamente non sono la stessa cosa. Non è affatto detto che un incontro fortuito sia allo stesso tempo fortunato, né i colpi di fortuna arrivano sempre per caso.
Segue poi il mediano “sorte”, più ambiguo e sfumato, privo com’è di quell’aurea positiva che di solito (ma non sempre) accompagna il termine “fortuna”, e tuttavia più prossimo a quest’ultimo che al caso.
La sorte, quella forza oscura capace di rovesciare il corso delle cose all’improvviso, senza alcuna ragione e indipendentemente dal nostro intervento, può essere buona o cattiva, radiosa o nefasta. Diversamente dal caso, ha senso, secondo Aristotele, solo per gli individui dotati di libero arbitrio o, correggendo un po’ il tiro e allargando la cerchia, in relazione a esseri viventi con interessi valutativi e capacità intenzionali.
In parole povere, a un blocco di marmo non gliene importa un fico secco di finire nelle mani di Michelangelo o sepolto per secoli nelle profondità di una cava. Che si verifichi l’una o l’altra prospettiva è, in sé, più o meno probabile, in buona parte casuale. La pietra, di certo, non festeggia né si dispera.
Per chi, invece, è addestrato a scegliere, anche solo a naso, le alternative in ballo contano eccome. Si provi a chiedere al tale che una volta perse l’aereo, proprio prima che andasse a schiantarsi, se è uguale, indifferente, un lancio di moneta e nulla più. Se è solo un caso o non è anche fortuna. E pure per un cane, scommetto, c’è una bella differenza tra una vita in canile e la convivenza con un’allegra famigliola di provincia, munita di osso e giardino, bau!

Se, dal punto di vista filosofico, il caso ha provocato e provoca scossoni e paturnie epistemiche e metafisiche, la sorte (e la sua controfigura imbellettata, la fortuna) solleva ulteriori grattacapi morali.
E già, la sorte non chiede permesso, fa saltare ogni logica, ogni argomento. Se ne infischia di aspettative e meriti, non riconosce gli sforzi di una vita per imparare a scegliere e a fare bene. Tira su e giù senza passare dal via, ignorando il percorso. Un vero e proprio scandalo, manda all’aria ogni ordine e annulla ogni volontà.
Naturale che molti sistemi morali siano stati eretti con lo scopo precipuo di imbrigliarla, di affrancarci dalla sua morsa o, quanto meno, di limitarne i danni, consolandoci delle amarezze di un destino crudele e immeritato, temperando i narcisismi e le esaltazioni che una fortuna spudorata solletica. Rigide forme di disciplina e auto-controllo affiancate a tentativi di training autogeno, depositati come relitti nei tormentoni del passato arrivati fino a noi, “quisque faber est fortunae suae” (che nella versione originale non suona proprio così, ma fa lo stesso). Tutto per sottrarre terreno alla sorte, per convincerci ad essere autonomi, il che è una bella cosa, peccato non sia del tutto vera. Non c’è codice d’onore, sobrio e frugale che sia, capace di recidere ogni legame con l’esterno, sorte compresa, e che aldunque non costi troppo, in termini di rinunce a pezzi importanti di vita e felicità. La quadratura del cerchio non c’è, e allora?
Non resta che cedere il passo alla politica, che triangola inevitabilmente con la morale personale, si incunea nella trattativa dei singoli con il mondo e con gli altri e si fa carico del problema della sorte, per cui è, o dovrebbe essere, meglio attrezzata, proprio in virtù dei meccanismi di cooperazione.

Il pensiero politico ha con ciò ereditato una diffidenza istintiva nei confronti della sorte, anzi, si può dire si sia costituito apposta per affrontarla con armi migliori. Non è forse per ridurre il numero di sorprese sgradite che i cittadini scendono a patti con il Leviatano?
Quel che talvolta sfugge è che la riflessione politica non ha grandi simpatie nemmeno per la fortuna in senso stretto, intesa come condizione favorevole inattesa e del tutto casuale. Sì, certo, Machiavelli ne parla diffusamente, ma a parte il fatto che il nostro (in teoria repubblicano) si trova a scriver trattati di realpolitik per signorotti ambiziosi e attaccabrighe, spesso e volentieri in balia della sorte. Bisogna notare che in questo caso la fortuna è l’occasione propizia che permette al principe di manifestare la sua virtù. Virtù tutta politica, che a sua volta consiste anche nella capacità di riconoscere il momento opportuno per certe scelte. Qui, circolarità a parte, il sodalizio tra caso e fortuna si allenta, connettendosi quest’ultima all’espressione di un talento che non è affatto occasionale, che anzi può assumere i tratti della predestinazione ineluttabile, di vero e proprio fato.
Come dire c’è una bella differenza tra il colpo di fortuna di Maradona che, tra le altre cose, è capace pure di cogliere l’attimo, e quella del brocco che, senza sapere come, segna il gol della salvezza.
Ora se il primo tipo di fortuna, il successo legato all’esercizio di un talento fuori dal comune - concetto insidioso, per carità, e suscettibile di scivoloni populistici - ha trovato buona accoglienza nel nucleo duro dello spirito capitalista, che, non a caso, ha sempre visto di buon occhio l’accumulazione di fortune intese come beni e proprietà, segno esteriore di un’operosità produttiva che merita il giusto riconoscimento, come spiega Weber mettendo in relazione il fenomeno con il sostrato etico protestante, sul secondo, il colpo di fortuna random, l’ostracismo è condiviso.
Non c’è nessuna teoria politica seria che si auguri, che so, che la propria classe dirigente venga tirata a sorte, senza criteri di selezione, confidando nella sola fortuna. E mentre la legittimità delle imposte sul reddito è ancora oggetto di discussione per il pensiero liberale, sull’opportunità di regolamentare le successioni, bonus del caso e nulla più, da Mill in poi ci sono pochi dubbi.
A dire il vero bisognerebbe aggiungere che, con tutta la simpatia per le fortune meritate, il liberalismo, in quanto teoria politica, si è sempre preoccupato di sottoporle a vincolo, obbligandole da un lato alla trasparenza (per il principio secondo cui meglio una lobby dichiarata che una occulta), dall’altro a rigidi meccanismi di controllo.

E ora veniamo a noi, a questa Italia imprevedibile in cui tutto si dice e niente si fa e viceversa (così a caso, a seconda della fortuna), alla cultura politica che esprime un paese che alla botta di culo ci tiene assai, tanto da dotarsi di innumerevoli ordini di figure propriziatorie, San Gennaro, Padre Pio, la Madonna di Polsi, a cui devoti ‘ndranghetisti chiedono la grazia senza neppure un leggero imbarazzo, giù fino al munaciello, allo scazzamurrill, al folletto padano. Dove scarse, invece, sono le occasioni per chi se le merita davvero. Non resta che sperare nell’intervento divino di Maria De Filippi, che, non è sempre detto, ma tante volte funziona. Eri uno sfigato, ignorante e un po’ sessista? Oggi sei il nuovo idolo del tubo catodico e domani, chissà, coordinatore nazionale del partito delle virtù. Tutto può essere in un tal contesto.
Ottimisti sempre, al di là di ogni dato di fatto, di ogni ragionevole perplessità, il motto che condensa l’odierno spirito nazionale, perfettamente incarnato dal nostro premier entusiasta e dai suoi allegri sodali, la sedicente destra liberale, che non sa o confonde la lezione dei maestri, i conservatori di una volta, i liberali all'antica, contraddistinti proprio da un pessimismo atavico, lucido, ostinato.
Si vede che dai noi guardano a più esotiche tradizioni o forse non ne seguono nessuna. Vanno alla cieca affidandosi a un’altra orba, la dea bendata, convinti che aldunque vedrà bene di star dalla loro parte.

mercoledì 21 luglio 2010

Le parole degli altri. L’onesto mestiere dello scrittore

L’altro libro prezioso, circolato sotto mentite spoglie come collezione di ricordi sparsi senza troppe pretese, memorie rapsodiche di un vecchietto arzillo, che ha dalla sua un archivio infinito di aneddoti e storielle, di amici famosi a cui fare il ritratto, per gioco, per affetto e poco altro, è Mutandine di chiffon del soave Fruttero.
Snob come solo i torinesi sanno essere, intriso di sano e incorruttibile pessimismo sabaudo, di uno scetticismo sfrenato che non si è mai fatto illusioni (a differenza di quello un po’ tirato, sofferto, nel complesso poco credibile, di Berselli, inguaribile sentimentale, modenese della Bassa, venuto su tra feste dell’Unità, lambrusco e salamelle), Fruttero declina il suo ruolo nella variante “Gian Burrasca attempato”, irriverente guastatore che ghigna di tutto, infischiandosene di piaggerie, perbenismi e falsi pudori, umorista à la Voltaire che zompetta qua e là, divertendosi a mescolare alto e basso, sacro e profano.
Tanto alle lacrime ci pensa la vita, possiamo tranquillamente dedicarci ad altro. Affiora tra le pieghe una morale tocquevilliana di antica ascendenza liberale, a tratti conservatrice, tradizionalista, un po’ retrò, a tratti profetica, e non in virtù di chissà quale misteriosa capacità intuitiva, ma per il suo attaccamento alle cose, a inseguirle fino all’ultimo dettaglio, con sguardo lucido, disinteressato, più attento alle piccole crepe della realtà, ai bachi, agli errori che ai successi.

Svirgolate a parte, Mutandine di chiffon è soprattutto una meravigliosa, inappuntabile, lezione di stile, una chiara, incontrovertibile dimostrazione di cosa significa fare sul serio l’onesto mestiere dello scrittore.
Scrivere bene, scrivere bene di tutto, dal taschino della camicia ai propri affetti più cari, usare parole e sintassi come chiodo e martello, captare quando suonano, e quando proprio non va. È questa l’unica ambizione, riservata e modesta, che Fruttero ha mai coltivato e gli è riuscito davvero, per nostra fortuna.
Non soltanto un autore di gialli, se con ciò si intende in qualche modo sminuirne la grandezza. Anzi, mi correggo, soprattutto un autore di gialli, come direbbe lui ingenuamente, come a ribadire l’ovvio, ma di gialli a modo, perfetti, di noir coi controfiocchi, che non hanno nulla da temere sistemati in bella vista in libreria tra Pasolini e Sciascia. Che, al contrario, testimoniano il gusto per un piacere più sottile, più raffinato, più perfido e giocoso.
Affacciati sull’abisso, c’è chi al dunque preferisce chiudere con una buona battuta.

Quanto a raccontar storie di mestiere, se si hanno ancora dubbi su cosa fa uno scrittore quando è all’opera (e certamente è così dal momento che la questione è oscura), si può stare a sentire Fruttero che lo spiega a proposito di un altro, il Lucentini di Fruttero&Lucentini, l’amico di una vita, Franco.
(E con ciò passo finalmente al secondo saccheggio. Chi a questo punto fosse stremato, d’ora in poi, nei post intitolati “le parole degli altri”, può saltare direttamente al testo fra virgolette.)

«La sua prosa è fatta di quattro assi, mezza dozzina di chiodi, qualche pezzo di spago, un elastico, un paio di turaccioli, poche rondelle rugginose; è un’arte povera, da prigioniero, da recluso, da naufrago, da eremita, e non ha niente a che vedere col realismo né col neorealismo. L’uomo che ha messo assieme per implacabili eliminazioni questa scrittura fanaticamente dimessa è lo stesso che idolatra Ariosto e Flaubert, che ha tradotto per suo divertimento il Coup de dés di Mallarmé, che cita a memoria interi brani del D’Annunzio romanziere, che delle Finzioni di Borges ha dato una versione italiana che non sminuisce di una venatura i sontuosi e ironici marmi dell’originale.

Ottenere con mezzi volutamente infimi effetti d’intensa poesia è un obiettivo che molti scrittori “colti” si sono posti, soprattutto in Italia. Ma, in Lucentini, questo elemento di scommessa, di sfida sperimentale mi sembra secondario, se pure c’è. Nessuno, meno che mai l’interessato, sa che cosa effettivamente passi per la testa di uno scrittore nel momento in cui prende la penna in mano, ma gli amici di Lucentini sarebbero pronti a scommettere qualsiasi cifra che egli si accosta alla sua Olivetti, posata su uno sgabello, borbottando ‘Oh, allora…’, ‘Dunque, vediamo…’, ‘E che ci vuole?’, vale a dire con le stesse frasi, lo stesso animo, con cui l’hanno visto infinite volte smontare una lampada, segare una gamba di sedia, tendere un impianto elettrico, riparare un trenino, trafficare dentro un motore d’auto, ritagliare un vetro per una delle sue incisioni olandesi. Pantaloni di velluto, camicia a quadri, giacchetta da ladro di biciclette, e mani delicatissime, pazienti, ostinate, che non rifiutano nessun impegno e non hanno mai paura di “sporcarsi”. L’arte è per lui un solo grande cantiere, e il più duro giudizio che gli si possa sentir esprimere a proposito di un altro “lavoratore” – maestro della pittura veneta, poeta elisabettiano, regista di film western – è che “non sa fare”.»

lunedì 19 luglio 2010

Le parole degli altri. Prolegomeni a una filosofia a quattro zampe.

Non sempre si ha qualcosa da dire e allora è meglio tacere. Tanto più se quel molto o quel poco a cui si sta pensando l’ha già detto, e meglio, qualcun altro. In tal caso mi sembra più decoroso prendere a prestito, rubare, che tentare ad ogni modo di fare gli originali. Perciò ho deciso di inaugurare una serie di furti eccellenti, di rapine a banda armata di parole degli altri. A mia unica scusante la puntuale auto-denuncia.
Il primo malcapitato è Berselli e il suo gioiellino, Liù. Biografia morale di un cane, un libretto all’apparenza disimpegnato, inoffensivo, una collezione di riflessioni sparse e poco più, originate dall’osservazione puntigliosa, a tratti maniacale, delle abitudini della propria cagnolona, la labrador nera Liù. Prende in giro il Berselli, col suo gusto per l’ironia e lo scherzo, infilando nelle pagine, come cosa da niente, un trattatello di filosofia tra i più interessanti in circolazione. Dice di aver smesso di teorizzare, che gli riescono ormai solo i racconti, ma è goffo nei panni dello scettico radicale, si vede che c’ha il cuore tenero e non ci crede fino in fondo. Così non manca un pizzico di teoria e il racconto, prima o poi e non a caso, va a parare da qualche parte.
Ma ora spartiamoci il bottino.

«Purtroppo, l’Italia di sinistra, scomparso il gran partito dei lavorator, e sprofondata l’Atlantide comunista nel nero oceano della storia, ha lasciato una scia di indignazioni senza guida, di manie civili prive di obiettivo, di relitti regolamentari smodati, dove la legalità viene evocata di solito a martellate. In assenza di una guida riconoscibile, si è liberato un torrente di frustrazioni che tende a formare in particolari fronti di ostilità e di rancore. Ci vorrà soprattutto del Prozac. L’Italia di destra, liquidato il “partito zia”, è diventata un’estesissima famigliaccia al servizio del Sultano che c’è e di quelli che verranno. Per gli ostinati, per il fronte degli edonisti, ci vorrà del Viagra.
Prozac, Viagra. Alternativa tutta materialistica. In queste condizioni non c’è teoria che tenga. È vero che, per diverse stagioni, abbiamo creduto in tutte le peggiori sciocchezze ideologiche sul mercato e il capitalismo, ma adesso dovremmo evitare di farci imbrogliare ancora per amore di qualche schema.

Per riuscirci dobbiamo fare come il cane. Annusare tutto senza credere né ai profumi né alle puzze. Diffidare della scomodità. Diffidare della comodità. Alla fine, si sa bene che si comincia sempre con la grande filosofia tedesca, l’idealismo, la fenomenologia dello spirito, le appercezioni a priori, le intuizioni trascendentali, la pace perpetua, Kant che non sbagliava mai di un minuto, per poi scendere verso terra e trovare le soluzioni lì dove le stai cercando, nei labirinti del quotidiano, fra le alternative intrinseche alla realtà, e dove le scopriremo, come previsto, solo abbaiando.»

venerdì 9 luglio 2010

Pronto Soccorso Mnestico

Lo posto per tirarmi su il morale in queste giornate grame di bavette e bavagli.
Fu una serata elettrizzante, un po' casciarona (come commento a caldo, che la mia vis polemica non si esaurisce mai), ma bella, entusiasmante.
Non so se il blackout informativo di ieri, la ritirata sull'Aventino, possa scuotere le coscienze, lanciare un segnale...
La logica di raiperunanotte mi pare funzionasse al contrario, tutto sommato mi convinceva di più.



Grazie a Ste, che ha realizzato il filmatino, a Paolo Conte e alle amiche, che insieme siamo meglio!

venerdì 4 giugno 2010

The Bathroom Insights

Il colpo di fulmine, si sa, arriva quando meno te l’aspetti. Così tempo fa (anno più, anno meno) sfogliavo la classica rivista in uno dei rari momenti di beatitudine della giornata che concede il bagno, quando tra un servizio di moda e la posta del cuore il mio occhio casca su alcune foto in bella mostra accanto all’articolo sulle ultime nuove dal fronte dell’arte. Ci vuole un attimo e zac!, resto folgorata. Chi sono costoro, statue, bambole, androidi, replicanti, esseri di plastica che sembra pelle e peli, capelli, unghia, ciglia, rughe e porri, punti neri, brufoli e meraviglia nello sguardo, incarnazioni precise sputate della “gente normale” che incontro per strada, che sono anch’io senza pensarci su? Chi sono insomma questi alieni uguali a me, se non fosse per le misure, spropositate o minuscole, unico segno della loro appartenenza a un’altra dimensione, un particolare che mi incanta e non mi rassicura affatto? E chi li ha messi al mondo, chi ha partorito un’idea così semplice e al tempo stesso temeraria, complicata, megalomane e maniacale, rifare gli esseri umani, più grandi, più piccoli poco importa, ma tali e quali fino all’ultima vena varicosa?

Divoro l’articolo e scopro che si tratta di Ron Mueck, un australiano trapiantato in Inghilterra, rappresentante di quella corrente nota col nome di iper-realismo. Mi conforta sapere che a Londra a spartirsi gallerie e mercato delle quotazioni non ci sono solo i “giovani” come Hirst, per il quale è sufficiente tempestare di diamanti un teschio o mettere sotto formalina una mucca per fare arte, cosa che mi aveva a lungo convinta che il meglio che essa potesse ancora offrire si incontrasse per strada tra gente come Banksy e Blu.
Ma Mueck merita e insieme ad altri (pochi in realtà) spariglia il mio assioma. Ha esposto alla Biennale di Venezia nel 2001 con un’opera, Boy, che infatti non mi è nuova (devo averla vista in tv), ma da allora mi pare la sua tecnica si sia affinata. Alla gigantesca ragazza di In Bed non resisto, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. Vorrei indovinarne i pensieri, mi aspetto che prima o poi me li confessi cominciando a parlare mentre si alza a rifare il letto. Stessa cosa per le vecchine di Two Women, piccole e velenose. Sento il loro borbottio quando ne incrocio gli sguardi obliqui e rancorosi, i commenti acidi delle comari di paese, ma anche di molte "sdaurine" urbanizzate che ho avuto la fortuna di conoscere in certi condomini bolognesi. Sarebbe meraviglioso avercele in casa in qualche angoletto, rispondergli a tono quando tutto è andato storto e almeno ci sono loro con cui sfogarsi… Cosa avranno mai da guardare, brutte pettegole!
Per la brunetta (si fa per dire) di In bed sogno invece una stanza su misura tutta per lei, in cui andarla a trovare ogni tanto per fare quattro chiacchiere al mattino o nelle notti di insonnia. Lo so, la mia ormai è pura follia, ma tant’è, sono innamorata.

Scappo a cercare altre notizie nel mare magnum del web e mi imbatto in un’altra fulminata come me, che ha concepito un sogno più bello del mio, farsi fare un ritratto tridimensionale da Mueck mentre fuma le sue Galoises rosse. Glielo rubo. Voglio anch’io una riproduzione di me fatta da Ron, anche appena sveglia tutta gonfia o infagottata nel plaid col naso rosso e smoccolante da raffreddore invernale. Infierisca pure, ma mi rifaccia in scala, please! Gliene sarei eternamente grata.
Giacché ci sono do un’occhiata al blog. Simpatica ‘sta Babsi Jones! Ha viaggiato un sacco in ex Jugoslavia, scrive racconti, uno mi sembra particolarmente interessante. Si intitola Due dita in culo, se non ricordo male, ma non è una storia zozza come potrebbe sembrare. Ricerca proficua, due piccioni con una fava, un altro sogno da coltivare, una Raffa versione Mueck possibilmente piccola (che altrimenti non so dove metterla) e una tizia vivace, dotata di ambizioni letterarie, da tenere d’occhio.

Da allora purtroppo è trascorso del tempo e devo ammettere che ho perso di vista entrambi gli obiettivi. Di Mueck non ho visto ancora neanche una mostra. Figuriamoci poi se ho avuto modo di presentargli la mia gentile richiesta.
Babsi Jones adesso è una scrittrice a tutti gli effetti, ha pubblicato con Minimum Fax e Rizzoli, ma, nonostante la mia curiosità precoce, in anticipo sui tempi, non ho letto neppure un suo libro.
Rosico al pensiero di aver perso tutto ‘sto tempo, di aver permesso alla vita, alle beghe, al trantran quotidiano di distogliermi da cose ben più serie ed entusiasmanti, i grandi amori, le felici intuizioni che solo nell’intimità raccolta del mio bagno mi capita di partorire. Che poi non sarà vero solo per me. Chissà quante opere letterarie, artistiche, musicali, quante scoperte scientifiche sono state concepite alla toilette, tra le quattro mura calde, umidicce e accoglienti in cui finalmente si è da soli, liberi di pensare ai fatti propri in una concentrazione gaia e assoluta… E anche il mio sogno, una copia conforme di me in silicone dotata di vita autonoma sul mio comodino, di ‘sti tempi ha una sua dignità. Mi tocca correre ai ripari al più presto!
Devo anche aggiungere due voci nuove alla lista dei buoni propositi: imparare a fidarmi di più di me stessa in quei momenti, tenere in debita considerazione tutto quel che mi salta in mente lì dentro.

martedì 25 maggio 2010

Donna, che ‘a Maronna t’accumpagn!


A quanto pare noi donnine del bel paese dovremmo proprio ringraziare la Madonna.
E già, sarebbe merito suo l’aver salvato il femminile dalle maglie del maschilismo più becero. Nella devozione a lei indirizzata avrebbero trovato riparo e accoglienza principi e valori espulsi dalla scena pubblica, i quali recuperarono spazio all’interno delle mura domestiche, laddove l’ordine simbolico della madre venne confinato e al tempo stesso la fece da padrone.
Di più, il culto mariano avrebbe addirittura “santificato” tale ordine agli occhi della comunità, conferendogli un’autorità particolare, un filo rosso, una continuità di sguardo che unisce in una specie di piano-sequenza mamme, zie, nonne a quella statuina di gesso nella nicchia e che conosce bene chi è nato e cresciuto in una famiglia italiana. Il fenomeno infatti è tipico dei paesi cattolici come il nostro, dal che si dedurrebbe che il cattolicesimo stesso sia un terreno più fertile, più pronto a riconoscere il valore della figura femminile, ad accoglierlo e farlo proprio rispetto ad altre confessioni cristiane. Una conclusione condivisa persino da gloriose pioniere del femminismo nazionale.

Sarà… A me sembra che sui “fondamentali” le donne di certi paesi riformati, nel Nord-Europa, ma pure in qualche borgo valdostano, siano indiscutibilmente avanti e da almeno due secoli. La tentazione di far prevalere un simbolico consolante su una realtà grama, di “prendere il buono che c’è” è rischiosa e mistificante.

Insidioso concedere un valore eccessivo a una specificità femminile desunta o costruita a partire da pratiche distintive quali l’amore materno o la cura, proprio i due ruoli che a lungo hanno incasellato la vita delle donne in un percorso a tappe ordinato in partenza, senza troppe alternative, come per la povera Maria, che non poteva certo dire di no all’angelo.

Non soltanto. Questa visione del “femminile”, della maternità, della cura è parziale, sarebbe a dire favolistica, e lo svelano proprio le favole, le filastrocche, le ninna nanne, che si sono incaricate di rappresentare la parte oscura, di dire il “non detto” in forma di gioco, di scherzo a chi si presume non possa capire (e invece capisce benissimo), i bambini. A loro si racconta la stanchezza, l’insoddisfazione per una maternità non scelta, per la costrizione alla cura che a volte è pessima cura. Ed è tutto un fiorire di abbandoni nel bosco, di orchi e streghe assassini, di madri e padri che di loro non ne vogliono sapere.

Ecco, voglio forse buttare “quel poco di buono che c’è” nel connubio tra religione e cultura popolare nostrana?
No, la Madonna, confesso, mi sta pure simpatica. Suggerisco solo alle giovani donne italiane col pallino della maternità a fasi alterne, quelle che si riscoprono a recitare l’Ave Maria sperando nel miracolo, ma che in fondo mica lo sanno tanto bene, di provare a canticchiare subito a seguito “ninna oh, ninna oh, questo bimbo a chi lo do?”.
Se il desiderio permane sarà il caso di cambiare paese.

martedì 4 maggio 2010

Le parole sono importanti



Sono un’elettrice di sinistra. Un’estremista moderata o una moderata estremista che dir si voglia. Una che diffida delle contrapposizioni nette, preferendo la pratica più modesta del confronto ragionato su proposte concrete. Che non si scandalizza per le alleanze a patto che esse avvengano alla luce del sole, siano finalizzate a obiettivi chiari, condivisi e non costino troppo. Su certi principi e certi valori - laicità, libertà civili, giustizia sociale, un’idea sostanziosa di bene comune - non voglio arretrare di un passo.
Di questi tempi per una così trovare non dico una casa, un partito, ma almeno un riparo provvisorio è impresa ardua. Non sono pochi quelli che, meno scrupolosi e pazienti della sottoscritta, hanno da tempo gettato la spugna scegliendo di non votare. In questo senso ha ragione l’Annunziata, l’astensionismo coinvolge pure “i moderati”. Ma “moderati” è un’etichetta vaga e, a meno che non si escludano a monte quelli come me - giovani precari magari un po’ spiantati, laureati col piercing e il phd, confusi sì, ma non al punto da scambiare la politica con il derby allo stadio – “moderati” vuol dire tutto e niente.

Perché è così difficile trovare una collocazione a sinistra? Per quanto mi riguarda il problema è retorico prima ancora che politico. Lo so, può sembrare superficiale, ma è brutalmente vero. Non amo i paroloni altisonanti, il tono ampio, magniloquente delle grandi celebrazioni e dei massimi sistemi. Mi viene una fitta allo stomaco ogni volta che Ferrero, o chi per lui, se ne esce con qualche citazione nostalgica, tirata fuori da un ciclostile degli anni ’70.
Un dolore lancinante e lì mi ha perso, non riesco più a seguirlo a dispetto delle intenzioni e dei contenuti. Persino Vendola, che pure è più simpatico e à la page, talvolta scatena in me reazioni inconsulte. Quando parte con le sue bordate evangeliche, coi predicozzi da avventista del settimo giorno mi trasformo nella ragazzina dell’Esorcista e non è un bel vedere.

Il punto è che mi piace l’asciuttezza, il ritmo stringato, l’inversione e l’ironia. Ho letto Sciascia e Camilleri (ma avrei potuto citare gli americani): non so che farmene di sermoni, fioriture e birignao. Molto meglio una battuta incisiva, un gioco di parole, un graffio.
Non amo tuttavia il compiacimento verbale fine a se stesso, il calcolo a tavolino del polemista scafato, l’aria sicura e strafottente del primo della classe che si trastulla pensando “ora la sparo grossa”. Non voglio che mi si squaderni il mondo come fossi un’imbecille, preferisco farmelo raccontare da un compagno di ventura, da qualcuno che si considera sulla mia stessa barca, capace ogni tanto di strapparmi un sorriso sulle nostre miserie senza per questo salire in cattedra. Non a caso digerisco Travaglio a fatica anche se sa il fatto suo, mentre di Berselli sento già la mancanza e non credo mi passerà.
Non amo neppure l’umor nero, il veleno e il sarcasmo. Per questo non mi entusiasma Grillo, che, a mio avviso, ha perso il suo smalto: è nervoso e appuntito, biliare, si trasforma ogni giorno di più in una specie di Savonarola di noi altri. E poi ho detto che mi piace il linguaggio semplice, diretto, non per questo sciatto o inutilmente volgare.

Perché non guardo al Pd?
Non è esatto, in effetti lo faccio ma ritrovo all’interno del suo corpaccione tutti i difetti menzionati prima. Il veltronismo zuccheroso passato in eredità a Franceschini, un meringone moralista che neanche il libro “Cuore”. L’isterismo martellante della Turco, per la quale proporrei uno spegnimento temporaneo, almeno finché non recupera un po’ di serenità. La spocchia altezzosa di D’Alema, che spesso ha ragione, ma è insopportabile.
A questo proposito è necessaria una precisazione – D’Alema ha ragione per me, che sono un po’ cervellotica e concedo a mia discrezione qualche credito agli antipatici, ma non si illuda Massimo, non credo di essere un buon campione – a cui segue una breve riflessione – la simpatia, berlusconismo a parte, non è un aspetto deleterio, mistificante o secondario della politica, come di ogni relazione umana. Sarebbe ora che anche la classe dirigente di sinistra se ne rendesse conto.

Bersani potrebbe anche attrarmi, non dico di no. Schietto, pragmatico, ironico e sornione sembra il candidato ideale per un “dalemismo dal volto umano”, progetto che in sé non mi dispiace. Trovo simpatici i suoi quadretti da bar, il realismo contadino e operaio che non è mai caricatura, le metafore artigianali e strampalate, purtroppo a volte indecifrabili. Mi spaventano invece le sue improvvise e inspiegabili assenze proprio quando accade il finimondo. Se ripenso al dicembre pugliese prima delle regionali ho una stretta al cuore, tanto più per come è andata a finire. Emiliano che accusa Vendola di voler distruggere il Pd e la sinistra tutta, Vendola che contrattacca gridando al complotto con Casini. Primarie tardive, pasticciate, il silenzio assordante di Bersani, la presenza eccessiva di D’Alema, tutto questo per vincere di misura, di fatto grazie alla spaccatura degli avversari. E poi i festeggiamenti in piazza, Vendola che stappa lo champagne, Emiliano al suo fianco ad abbracciarlo. Il presidente neo-eletto che si dichiara pronto alle trattative con l’udc, io a casa che sembro Tafazi. Una sola domanda che mi ronza in testa: non potevano sentirsi in agosto e risparmiarci ‘sta manfrina?

Comunque, archiviando per un momento le perplessità, lasciando alle spalle il passato, devo riconoscere che giovedì ad Annozero Bersani è riuscito a compiere il miracolo: la sua replica a Travaglio, alla Innocenzi e alla Rangeri era pressoché perfetta, metricamente inappuntabile, chiara, diretta, appassionata e al tempo stesso priva di cedimenti sentimentalistici, concreta, sincera. Manca poco e mi convince.

Un segretario così può riconquistare un bel po’ di “moderati” atipici, a patto però che non sparisca di nuovo, che non si intiepidisca, non si afflosci per strada come stava per accadere già alla fine del programma quando la Rangeri, in un moto di riscatto, ha sapientemente tirato fuori la questione del referendum sull’acqua. Lì Bersani ha fatto un passo indietro, ha cincischiato con un fumoso “ni” che non è “no, non ci interessa” e neppure “sì, lo appoggiamo”. Ecco, da parte mia avrei preferito il piglio di prima, anche a costo di scontentare qualcuno. Bersani non vuole sostenere il referendum? Che me lo dica, e lo dica alla Rangeri, chiaro e tondo. Qualcosa tipo “niente strumento referendario, tanto più visti gli ultimi risultati. Al momento in parlamento non abbiamo i numeri per presentare un disegno di legge in materia, possiamo solo lavorare insieme per stendere al più presto una proposta decente, delle alleanze solide e vincere le elezioni”. Ad una risposta del genere potrei riconoscere delle ragioni e in ogni caso potrei fare i miei conti.
Mi si replicherà che in fondo questo intendeva Bersani. Può essere, anzi è certamente vero, solo che bisognava estrapolare il messaggio dagli sbuffi e dai ricamini in cui era avvolto, gli equilibrismi e le piaggerie reticenti che ingolfano la strategia comunicativa del partito e affaticano gli elettori come me. Per una manciata di minuti questo ciarpame retorico mi è sembrato lontano, un brutto ricordo e niente più . Il discorso di Bersani sembrava fuori dallo schema consueto, l’oscillazione tra “non detto” e “detto troppo e male” che da sempre cadenza e inquina la discussione pubblica in questo paese. Un’alternanza che richiede un continuo sforzo di decifrazione da parte di noi poveri elettori a fronte dell’irresponsabilità linguistica, prima ancora che politica delle dirigenze. Una fatica che è sempre più gravosa e rispetto alla quale le parole di Bersani sono state una ventata d’aria fresca, credibili e avvincenti perché aderenti ai fatti, alla propria esperienza di vita quotidiana, senza tutti quei fronzoli che in politica soffocano il racconto.
Peccato che alla fine del programma l’attimo fuggente fosse già passato. Spero si sia trattato di un calo fisiologico, un po’ di stanchezza a fine giornata. Non vorrei dovermi consolare col filmato su youtube per chissà quanto in mancanza di meglio, proprio ora che cominciavo a prenderci gusto …

lunedì 29 marzo 2010

Sua Eccellenza, una preghiera…

Non ne posso più di questa tiritera sull’aborto che salta fuori ad orologeria sempre in prossimità di appuntamenti elettorali. Stavolta è Bagnasco, presidente della Cei, a ribadire l’agenda morale e politica del “buon cattolico”. In cima alla lista dei “delitti incommensurabili”, accanto al razzismo a cui è equiparato, si piazza di nuovo, niente popò di meno che, l’aborto. Attorno a questi due temi, in contrapposizione ad essi, il credente è chiamato a orientare il proprio voto. Il sottotesto è chiaro, anche se, tra le righe, si legge qualche timida incertezza di Sua Eccellenza, lo scricchiolio di alleanze tacite, pressoché scontate in passato, a cui oggi è necessario apporre qualche distinguo.
Il riferimento all’aborto ha un nome e cognome, Emma Bonino, la femminista radicale nemica di sempre. L’indicazione allegata è inequivocabile, sostenere la Polverini nonostante il pasticcio delle liste, evitare l’astensionismo e la dispersione del voto cattolico che favorirebbe i rappresentanti della “cultura della morte”. Quello al razzismo sembra invece il tentativo di smarcarsi, sia pur blandamente, da certe trivialità della parte amica, in particolar modo della lega, che della caccia al clandestino ha fatto una cifra distintiva. Ma il messaggio è generico e al tempo stesso sottile, spara nel mucchio, non ha un destinatario chiaramente identificabile e poi non ne parla nessuno. Capisce chi ha orecchie per intendere e così sia, nei secoli dei secoli, amen. La linea che da sempre piace ai porporati.

Mettendo da parte l’irritazione per l’ingresso a gamba tesa nella vita politica del paese, che - mi dicono – è normale (il che provoca in me ulteriori sbigottimenti). Trattenendo per un attimo il fiato, concedendo che sia così, normale, una casualità il tempismo, una coincidenza lo scontro polemico su un tema, l’aborto, spendibile contro un solo candidato per ragioni peraltro discutibili.
In quanto donna e, direi con le opportune postille, femminista, il discorso di Bagnasco produce in me reazioni più profonde. L’accettazione acritica dei suoi presupposti da parte di amici cattolici colti, raffinati, intelligenti, le concessioni di qualche filosofo in erba “moderatamente di sinistra” mi danno il colpo finale. L’aborto sarebbe un crimine al pari del razzismo, dell’omicidio e di chissà quali altre nefandezze. Qualcuno osserva che è anche peggio del razzismo, perché a quest’ultimo spesso si sopravvive, mentre con l’aborto ciò è escluso in partenza. Comunque la posizione della Chiesa è nota, non dovrebbe meravigliare nessuno, anzi ogni “buon cattolico” è chiamato a condividerla e accettarla.
Mi vien da pensare che di queste cose molti cattolici discutano poco o niente. E in effetti la materia non scalda gli animi popolari, che al dunque non ne fanno una battaglia politica. Lo testimonia il flop del movimento di Ferrara, che nessuno a tutt’oggi ha capito cos’era. Di aborto discute una ristretta cerchia di persone - gli eruditi, i teologi, i filosofi, gli specialisti di bioetica - che dovrebbero aiutare gli altri a capire le cose più oscure e invece spesso servono solo a complicare il quadro, a becchettarsi tra loro a suon di astrazioni.

E sì, perché ci vuole fantasia a mettere sullo stesso piano razzismo e aborto unificandoli nella condanna morale. A me sembrano cose molto diverse, così come mi sembra cieco, frivolo o in malafede in misura del contesto, talvolta pericoloso chi sostenga il contrario a costo di negare diversi tipi di evidenza.
Devo guardare al male prodotto per valutare i casi che ho di fronte, al fatto che dal razzismo posso salvarmi, dall’aborto no? Ma questa è un’etica di stampo consequenzialista, nella quale norme e valori si riordinano di continuo, sono commensurabili eccome. Si possono fare confronti in base alle previsioni delle conseguenze di azioni e scelte, e fare un ordinamento gerarchico tra situazioni migliori e peggiori, un ordinamento peraltro rivedibile. Se così fosse un sistema razzista che non fa morti, ma solo emarginati sociali, potrebbe essere comunque migliore non soltanto di uno che uccide su basi razziali, ma anche di uno che consente la pratica dell’aborto da cui non c’è scampo. L’allerta morale dei cattolici dovrebbe subito concentrarsi nella contrapposizione a quest’ultimo, facendo slittare in fondo al listino delle priorità la lotta alle discriminazioni razziali.
Lo so, può sembrare che sia andata proprio così in Italia ultimamente e che una spinta in questo senso sia venuta direttamente dall’alto, ma è non certamente questa la strategia argomentativa di Bagnasco e compagnia varia, gli ideologi dell’anti-abortismo. Meglio non prender per fesso l’avversario: ha letto i testi, fatto scuole buone e tutto da guadagnare da letture semplicistiche. E poi ho promesso di fermarmi in superficie, di concedere un vantaggio al mio interlocutore evitando commenti dietologici. Quella descritta prima non è la posizione ufficiale della Chiesa e in questa sede tanto basta.

E allora in che senso razzismo e aborto si somigliano? Per quale motivo fenomeni del genere dovrebbero mobilitare la coscienza del credente allo stesso modo? La risposta è davvero scontata, entrambe sono offese alla vita e alla dignità dell’essere umano, valori non negoziabili in una prospettiva morale universale che vuole dirsi cristiana davvero.
Ora, nel caso del razzismo l’applicazione del principio è abbastanza semplice e intuitiva. Non ho alcuna “ragione” per dubitare che l’altro, il diverso da me per etnia, colore della pelle, provenienza geografica e culturale, non sia in fondo uguale, un essere umano come me, una persona a tutti gli effetti. Non ho alcun diritto ad essere razzista, a prescindere dal calcolo delle conseguenze, dal male effettivo che il mio razzismo produce. Non ho neppure bisogno di credere in Dio per arrivare a una conclusione del genere, niente affatto relativista. Mi basta un po’ di esperienza, spirito d’osservazione e buon senso. Tutt’al più, volendo proprio strafare, qualche lettura, Kant ma anche gli insegnamenti di Gesù o qualche buon romanzo, a seconda delle inclinazioni e dei gusti.

Ma per l’aborto le cose sono altrettanto chiare, lineari, incontrovertibili?
In realtà in questo caso parole come essere umano e persona, così “naturali” nel precedente contesto, sembrano non calzare a pennello rivelando tutta la loro vaghezza semantica.
Cos’è di preciso l’embrione? Domanda difficile. Non ci troviamo di fronte a un intero psico-corporeo, di fatto nemmeno dinanzi a un organismo morfologicamente definito, per quanto non autonomo, che abbia già avviato interazioni sensoriali elementari con l’ambiente esterno. Nessuna individualità, neppure un indizio di coscienza. I nostri criteri ordinari per l’attribuzione di “personalità” qui perdono efficacia.
E allora perché la Chiesa non ha dubbi, l’embrione è persona a partire dal suo concepimento?

Bisogna intanto notare che non è sempre stato così. Il dibattito sullo statuto ontologico dell’embrione non è nuovo, non è il prodotto della modernità. Ne discutevano già Platone e Aristotele e la questione, riformulata in termini religiosi – quand’è che fa la sua comparsa l’anima, il tratto distintivo dell’umano, l’elemento rivelatore del divino? – si è trasferita in ambito teologico. San Tommaso, da buon aristotelico, non riteneva possibile che l’anima razionale fosse presente nell’embrione sin dall’inizio: in quanto insieme di facoltà superiori caratteristiche di una certa materia, essa aveva bisogno di una materia “formata” abbastanza, capace di accoglierla. Per questo, ne concludeva, veniva infusa per grazia divina in una fase di sviluppo dell’embrione che va dal quarantesimo giorno per i maschi al novantesimo per le femmine (e ti pareva!).
Ma queste stramberie oggi sono superate proprio grazie all’avversario di sempre, la scienza, che con la scoperta del DNA ha fornito alla Chiesa l’argomento più robusto per sostenere che l’embrione è persona da subito, ogni pratica che possa provocarne la soppressione – aborto, pillola del giorno dopo, RU486 – equiparabile all’omicidio.
Laddove l’ontologia non arrivava (né poteva arrivare), è subentrata la biologia a togliere le castagne dal fuoco. Ma, si badi, questa non è una resa incondizionata al nemico. Per gli altri temi “eticamente sensibili” come si dice adesso (quasi che problemi come il lavoro non comportino riflessioni di ordine morale), l’acredine per quei materialisti degenerati degli scienziati è tutt’altro che sepolta. Chi se ne frega se per aver ragione nel caso specifico bisogna incorrere in qualche incoerenza!

In effetti rispetto alle altre questioni bioetiche, che sembrano condividere un aspetto comune – staminali, testamento biologico, fecondazione assistita sono problemi “nuovi”, portato degli sviluppi delle tecniche mediche – l’aborto è un fenomeno a sé stante. Antica la disputa ontologica sull’embrione, vecchie come il cucco le pratiche per l’interruzione di gravidanza. Ne parla persino Ippocrate nel suo giuramento, vietandone il ricorso assieme alle terapie per il mal di pietra – i calcoli renali – e questo non perché le consideri un peccato. Il medico antico praticava un’arte pericolosa più vicina alla stregoneria che alla scienza. La sopravvivenza del paziente ai trattamenti cui era sottoposto era un evento già di per sé degno di nota. Per guadagnare una discreta reputazione bisognava tenersi lontani dagli interventi più rischiosi e invasivi. Ippocrate da buon caposcuola ne è consapevole e mette in guardia i propri allievi sulle insidie del mestiere. Prescrive loro di astenersi da quelle pratiche che mettono a repentaglio il nome di tutta la scuola, ammantando il divieto di un alone iniziatico che, come al solito, non guasta.
Risale all’epoca la biforcazione tra tradizione clinica, erudita, accademica, e pratiche terapeutiche speziali e chirurgiche, terreno di sperimentazione per figure quanto mai variegate - barbieri, macellai, norcini, cerusici, levatrici e mammane – girovaghi privi di istruzione, di procedure e regole comuni, talvolta di scrupoli. Una spaccatura protrattasi fino al XIX secolo e ancora oltre, nel caso dell’aborto sopravvissuta fino ai nostri giorni, sanata solo grazie a quella legge, la 194, di cui oggi si parla sempre più spesso a sproposito. In Italia prima di allora (e siamo nel 1978) l’aborto era illegale e clandestino, in mano a personaggi non troppo diversi dall’umanità variopinta descritta prima, a causa del cui operato chissà quanti milioni di donne, per dirla con Amartya Sen, mancano all’appello.

E qui veniamo al punto. Perché dopo tutte queste raffinate analisi, metafisiche e teologiche, sullo statuto dell’embrione, interessanti per carità, non abbiamo ancora sfiorato la peculiarità morale del problema dell’aborto. Persino l’argomento biologico, così come è recepito e usato dai “dottori” della Chiesa, parla dell’embrione come fosse situato in uno spazio sospeso, anonimo. Da questa posizione neutrale si pretende di ricavare una “soluzione” definitiva, ma il problema è proprio questo, la sua collocazione. Il suo stare “dentro” un altro essere umano, un’altra persona, una situazione che non ha un analogo in natura, per quanto la “fantasia” degli eruditi (quasi sempre uomini) si sforzi a costruire paragoni maldestri, nel tentativo di “normalizzare” il reale, di riportarlo a questioni già note. Il grande assente in questa discussione è l’altro (di primo acchito l’unico) essere umano di fatto presente sulla scena, una persona in carne e ossa, animata, “in atto” e non “in potenza”, meritevole, quanto meno, delle stesse attenzioni riservate all’esserino che si porta dentro. Non un essere umano qualsiasi - agli uomini per “natura” non capitano esperienze del genere – una donna, a cui a un certo punto può accadere di dovere scegliere per due continuando a essere una. Se lei non può decidere per lui, chi dovrebbe decidere per lei?

“Il dramma, signori, è tutto qui”, direbbe Pirandello, e proprio qui il discorso si inceppa, lasciando emergere una caratteristica del ragionamento morale, a cui teologi e filosofi smaniosi di trovare la quadratura del cerchio, non prestano la dovuta attenzione. Assente la riflessione sulla donna, assente la riflessione della donna. Non dico il pensiero di genere, in odor di eresia per Monsignore e i suoi amici. Parlo dei racconti di vita, delle esperienze, del come e perché si arriva a maturare la scelta di dire no alla propria creatura. Sarebbe interessante sentire il parere, chessò, delle suore bosniache per esempio, esperte di fede e, disgraziatamente per loro, anche di gravidanze indesiderate, chiedere loro se è così facile decidere cosa è giusto fare in quel contesto particolare. Ma le vittime di stupro sono testimoni scomode per chi è a caccia di soluzioni teoretiche. La realtà dei fatti diviene superflua, persino ostile per quest'ultimo.

Ora, si può essere d’accordo sull’esistenza di norme e valori oggettivi, e tuttavia questi ultimi talvolta (per fortuna non sempre) configgono in maniera radicale. I nostri strumenti ordinari ci vengono in soccorso, senz’altro può darci una mano la scienza, ma tutto ciò non “risolve” in maniera definitiva il problema, non lo elimina.
Per certi versi l’aborto è il classico esempio di dilemma morale, una situazione indecidibile in via di principio. Diversamente dal caso del razzismo, che in fondo è lo scontro tra diritto e prevaricazione, uno scenario che non ammette dubbi per chiunque abbia una coscienza morale, qui si scontrano due diritti e non smettono di farlo, nonostante lo scorrere del tempo e i progressi delle nostre conoscenze. Due diritti che letteralmente risiedono nella stessa persona, non possono venir rappresentati come istanze separate dinanzi al tribunale della discussione pubblica.
Non resta che rimettere la questione nelle mani del singolo che è coinvolto nella scelta, l’unico individuo che c’è, che è interpellabile in questo frangente, la donna, mettendola nelle condizioni di scegliere “bene” per sé e per l’altro che si porta dentro. Non si tratta di privilegiare i diritti delle donne contro quelli dell’embrione. Si tratta piuttosto di constatare che i diritti dell’embrione stanno dentro quelli della donna, che negando questi ultimi non si fa un buon lavoro a sostegno dei primi. Si tratta di bilanciare piuttosto che di risolvere, di mettere a punto meccanismi di aggiustamento tra istanze al contempo legittime, che non contrastino a loro volta con i principi fondamentali di integrità e autonomia della persona (nel senso ordinario in cui usiamo il termine), i fondamenti grazie a cui sono possibili convergenze tra diverse prospettive etiche e religiose e, soprattutto, declinazioni politiche delle stesse. Perdere questi criteri di orientamento comune non è un bene per nessuno, neppure per il cattolico fervente.

Passando per l’appunto dal piano morale a quello politico, proprio questo ha fatto il legislatore con la 194. Ha restituito al tema dell’aborto la sua complessità, ha garantito il diritto alla salute e all’auto-determinazione delle donne senza perciò farne una rivendicazione ideologica e aprioristica, ancorando a vincoli ragionevoli la legittimità al suo ricorso. Ha indicato una serie di strumenti di sostegno che si sarebbero dovuti realizzare, in modo da rendere possibili alternative di scelta. Insomma si è fatto carico responsabilmente di un problema complesso e ha cercato di offrire non una soluzione univoca, ma un quadro all’interno del quale le scelte dei singoli (in questo caso le donne) fossero più libere, sicure ed eque.
Una buona legge, peraltro sostenuta dal consenso popolare che si espresse a maggioranza con il referendum, una nota di merito, che, non si sa perché, agli occhi di qualcuno si trasforma in un elemento sospetto. Una legge che è rimasta in alcune sue parti lettera morta, come spesso accade in Italia, il che non dimostra affatto che fosse sbagliata. Una legge voluta da chi sostiene il diritto alla libertà di scelta e non la giustizia dell’aborto in sé e per sé. Non esiste nessuno che lo consiglierebbe a tutte almeno una volta nella vita. L’abortista è una figura fittizia inventata a bella posta per interpretare il ruolo del laico immorale. Sarebbe ora che anche il “buon cattolico”, il cattolico adulto e onesto intellettualmente se ne rendesse conto.

Sto forse sostenendo che la Chiesa non può avere un’opinione diversa in materia? In parte sì, ma rovescio la domanda e la rispedisco al mittente.
Io non credo che sull’aborto si possa fare la benché minima battaglia morale, e tanto meno una battaglia politica. La Chiesa e i cattolici la pensano diversamente? Va bene, però ci dicano in concreto cosa vuol dire questa “diversità”.
Per come la vedo io sul razzismo si possono lanciare strali da scranni e altari. Sull’aborto, che è un vero e proprio dramma della scelta, è lecito tutt’al più dare consigli, solo se interpellati e dopo aver ascoltato a lungo prestando attenzione. In ogni caso qualunque sia la scelta finale, tutte meritano un’assoluzione e un incoraggiamento. Qualche ave maria in più a chi ha riflettuto poco e questo è quanto. Non so proprio cos’altro possa fare una guida spirituale, un buon pastore.

Non basta? Non è quello che hanno in mente nei corridoi del Vaticano coloro che invocano ben altro radicalismo nella difesa della vita? E quindi cosa intendono di preciso? Che tutte le donne che ricorrono all'aborto sono moralmente colpevoli allo stesso modo a prescindere dalla situazione e dal contesto? Che è prevista la dannazione eterna per queste “assassine”? E per i medici che si prestano a tali pratiche, i farmacisti che vendono pillole mortifere, gli autotrasportatori che le portano in giro per mezzo mondo, gli operai che le inscatolano, i chimici che le sintetizzano e, al termine della lunga catena, gli uomini che le mettono incinte in chissà quali circostanze? Cosa è previsto per questi?

Dal punto di vista politico poi, l’antiabortismo di Bagnasco&co. è ancora più fumoso. Come si traduce politicamente? Che tipo di referente cerca? È stanco delle alleanze con politici baciapile, praticanti ma non credenti, la folta schiera dei Berlusconi, Casini, Mastella? Quali proposte concrete si aspetta in materia?
La vecchia tattica di piazzare il maggior numero possibile di obiettori di coscienza nei reparti e nei pronto soccorso ginecologici, in modo da rendere più complicato per le donne l’esercizio di un loro diritto, non è più sufficiente? Eppure finora ha garantito ottimi risultati: in alcune parti d’Italia è praticamente impossibile interrompere la gravidanza ricorrendo al servizio sanitario nazionale. La cosa talvolta ha avuto risvolti paradossali – medici tormentati da scrupoli nella loro attività pubblica, praticavano aborti clandestini fino al settimo mese in studi privati a Ischia e Napoli ad esempio, dimostrando di avere molto più pelo sullo stomaco di me, che con la fede non ho un buon rapporto – il che avrebbe dovuto aprire la discussione sulla moralità di tali obiezioni, ma di questo non si parla, non giova alla causa.
Mettendo da parte la questione e tornando a bomba, dobbiamo aspettarci un cambio di marcia? Si vuole tornare ai tempi in cui l’aborto era illegale? Si pensa di poter costringere le donne a partorire contro la loro volontà, trattandole a mo’ di incubatrici?

La mia impressione è che una difesa così strenua della “vita in potenza” risponda al bisogno di specificare la posizione cattolica nel presente contesto,di caratterizzare il proprio piazzamento nel mondo attuale. Tutto ciò a costo di trascurare i dati di fatto, di calpestare i diritti delle donne, delle vite in atto. L’attenzione accordata al tema dell’aborto rispecchia l’esigenza di definire una prospettiva cattolica, cosa sempre più difficile per la Chiesa al giorno d’oggi.
L’agenda morale e politica del “buon cattolico” rischia l’appiattimento su quella del “buon cittadino”. Così la battaglia ideologica si sposta su temi più idiosincratici, meno trasversali, che ridisegnano le priorità in risposta ai nuovi bisogni identitari. I pronunciamenti del Papa in visita in Brasile sono rivelatori: non la povertà, non la violenza, ma l’aborto in cima alla lista delle preoccupazioni.
Dietro a tutto ciò si nasconde un progetto, una piattaforma politica? Come dice Corrado Guzzanti quando fa Padre Pizarro, che vuol dire, che significa in concreto?
Il sospetto è che non voglia dir niente, che si agitino le acque solo per conquistare un profilo (assieme alle prime pagine dei quotidiani nazionali).
E allora Sua Eccellenza (e con lei ogni “buon cattolico”), le rivolgo una preghiera. Chiarisca i dubbi, venga allo scoperto rispondendo alle domande elencate con puntualità e dovizia di particolari.
In quel caso, stia certo, in quanto donne e femministe affileremo i nostri artigli e risponderemo punto per punto agli argomenti che avrà messo in campo. Altrimenti la smetta di scaricare i problemi della Chiesa sulle nostre spalle, ci faccia il piacere di trovare un altro collante per i cattolici e di lasciarci in pace.

mercoledì 24 febbraio 2010

Primavere precoci

È da un po’ che a “sinistra” sembriamo condannati a soffrire. Ci toccano solo emozioni tristi, risate amare che durano il tempo di un caffé, soddisfazioni modeste, subito incrinate da foschi presagi, da considerazioni a margine che rovinano la festa.
Il successo di Vendola alle primarie è, in questo senso, un caso esemplare. Non si può non gioire del fatto che il desiderio popolare di partecipazione attiva alla vita politica dei partiti sia prevalso sulla logica centralista (“francamente” un po’ datata) delle decisioni calate dall’alto. E però, da un punto di vista più generale, c’è ben poco da esser allegri. La soluzione al caso pugliese arriva dopo estenuanti polemiche che hanno lasciato emergere, per l’ennesima volta, i limiti di tutte le forze di sinistra.

Il pd, come sempre, ne esce malconcio. Inchiodato ad un candidato che non ama, in ansia per i riverberi che la gestione maldestra, a tratti imbarazzante dell’affaire potrebbe avere sul risultato delle elezioni “vere”, si ritrova a sbattere in quei problemi identitari che la nomina di Bersani a segretario era chiamata a risolvere. L’uomo pragmatico, dai modi schietti, il rappresentante della mozione più-a-sinistra all’interno del partito, avrebbe dovuto traghettarlo fuori dalle acque paludose del cerchiobottismo veltroniano. E invece dopo aver messo la sordina all’ala cattolico-moderata interna (tanto che i più permalosi hanno preferito abbandonare la nave), i vertici tentano la strada delle trattative con i cattolici un-po’-meno-moderati che stanno al di fuori, concedendo loro uno straordinario vantaggio, il diritto di veto all’alleanza in base a criteri personalistici oltre che programmatici. Un’idea di “convergenza politica” per niente nuova e tutta italiana per la quale si era pronti a mettere da parte lo strumento delle primarie, una delle poche trovate positive della stagione veltroniana, accolta durante l’ultimo congresso dallo stesso Bersani, boicottata di fatto alla prima occasione.
La crisi del pd è conclamata, così come le responsabilità di una classe dirigente presuntuosa e allo sbando, che pensava di rispolverare vecchi metodi dirigisti senza accorgersi, così facendo, di mettere a repentaglio l’unico capitale accumulato negli ultimi tempi, la partecipazione popolare.

D’altro canto questa non è affatto una buona notizia per “il popolo della sinistra”. Al momento il pd è l’unica rappresentanza presente in parlamento che sia pur timidamente (con l’ingombrante ipoteca del prefisso “centro-”) si può ricondurre a quell’area. Che la cosa piaccia o meno il paese va in tutt’altra direzione, da un punto di vista sociale prima ancora che politico. In tal contesto gli acciacchi del partito di Bersani, gli arretramenti delle sue posizioni si traducono inevitabilmente in un indebolimento generale delle istanze di sinistra. Ma le forze più radicali non sembrano preoccuparsene, prese come sono a ballare la rumba sulla cassa del morto. Peccato che nella situazione attuale “i cari estinti” siano loro.
Le ragioni di D’Alema saranno pure biecamente strumentali, tuttavia si basano su un semplice calcolo che difficilmente può essere contraddetto. Al momento, fatti due conti, l’alleanza elettorale con l’udc conviene di gran lunga rispetto a quella con partitini che non si sa bene se esistano, cosa perseguano e per quanto. E le cose stanno così anche perché queste stesse formazioni continuano a preferire il rituale collettivo dello scaricabarile, la lotta fratricida a colpi di distinguo verbali, la ricerca forsennata del capro espiatorio all’auto-critica, alla convergenza e l’unione su piattaforme comuni, che avrebbero dovuto conseguire già da tempo. Le lamentele sono sempre le stesse – il complotto trasversale dei partiti più forti contro le minoranze, le falle del bipolarismo e del maggioritario – su cui si può anche, in linea di massima, dirsi d’accordo, a patto di essere altrettanto seri nell’analisi delle alternative. Che il proporzionale abbia bisogno di ritocchi per correggere l’eccessiva instabilità governativa a cui è esposto è un’evidenza che in Italia dovremmo conoscere meglio che altrove. Ma a sinistra del pd simili banalità non sono viste di buon occhio: meglio star fuori dai giochi con il proprio 1% che sporcarsi le mani con la politica.

Così, tornando alla cronaca degli ultimi tempi e provando a ricapitolare, accade che Vendola, nonostante il plebiscito popolare, sia inviso ai vertici del pd, mentre parte degli elettori di quest’ultimo reclamano il suo ingresso nel partito e alcuni, addirittura, gliene affiderebbero la guida. Ferrero puntualizza al volo di essere piccato nei suoi confronti per le concessioni al pd medesimo e la rottura del fronte elettorale comune, concordato nel rispetto della “reciproca autonomia” politica, e mentre a questo punto il simpatizzante incerto, sempre più confuso e affannato, si chiede quali siano al dunque le differenze insormontabili tra i due, il nome del movimento (partito?) di Vendola si allunga un altro po’... Seguire gli arzigogoli di questa trama infinita, sempre uguale a se stessa, e, soprattutto, indovinarne il senso è impresa ardua e snervante.

Che la frammentazione interna alle forze di sinistra alternative al pd le condanni ad una totale ininfluenza è finalmente opinione condivisa tanto alla base quanto ai vertici, anche se sulle possibili vie d’uscita da questa fase di stallo si discute da tempo senza risultati. I problemi creati dalla scelta di alzare il livello dello scontro con gli ex-compagni imborghesiti, le vecchie volpi del pd, non sono invece oggetto di riflessione, pur essendo di fatto non meno incalzanti.
È singolare che tutti i protagonisti del “reality” politico della sinistra- D’Alema, Ferrero, Vendola e molti altri ancora- fitto di intrighi e veleni e molto poco agganciato alla realtà, sono figli del medesimo padre, il vecchio e nobile partito comunista. Per spiegare l’attuale fenomeno di repulsione reciproca fra le parti si potrebbe chiamare in ballo una mancata elaborazione del lutto, la nemesi storica di un passato ingombrante che si ostina a tornare. O più prosaicamente una velenosissima lite in famiglia per l’eredità.
Sta di fatto che per capirci qualcosa dobbiamo ricominciare da lì, dal parricidio che è all’origine dell’odierna tragedia.

Di quella lontana “svolta” con cui si chiuse l’esperienza politica del partito comunista i trentenni come me, poco più che bambini all’epoca, hanno un ricordo sbiadito: Achille Occhetto sfiancato, gli occhi cerchiati, il baffo risorgimentale significativamente afflosciato, attorno a lui vecchi compagni scalpitanti, in alcuni casi disperati. I più giovani non hanno memoria diretta neppure di questi rapidi flash. Tirati su nell’era berlusconiana, per le nuove generazioni il pci non c’è mai stato. Ben altre spartizioni di campo hanno segnato gli anni della loro educazione politica e se la discussione sul comunismo li ha ad un certo punto coinvolti è per come è stata riciclata nel nuovo contesto, uno strumento di propaganda vuoto ma efficace, usato spesso e volentieri dal populismo della nuova destra, che a sua volta ha alimentato le reazioni di segno opposto. La battaglia ideologica delle nuove leve si organizza da 15 anni a questa parte lungo altre categorie. Anzi sarebbe meglio dire attorno ad un’unica persona, Silvio Berlusconi, e al nuovo modo di far politica da lui imposto. È guardando a quel bersaglio polemico che sono stati distribuiti i ruoli a sinistra: D’Alema e soci i furbetti traffichini, Bertinotti e l’allegra consorteria rifondarola più bonari anche se un po’ instabili. Quel che è divenuto indecifrabile per chi non c’era è l’aria di famiglia tra vecchi compagni, le lacrime di quella fredda sera di dicembre dell’ ‘89, i motivi di frizione preesistenti al terremoto berlusconiano, messi temporaneamente da parte per ragioni di convenienza reciproca, clamorosamente esplosi nel presente contesto. Un’infezione a lungo trascurata che si è estesa sottotraccia a partire da quello strappo originario, rendendo oggi apparentemente impossibile il dialogo tra fratelli e cugini.

Eppure, si diceva, un tempo stavano assieme: tutti i personaggi in questione ne portano il segno, tutti hanno proseguito e incarnato determinati aspetti di quella tradizione comune. Alcuni - mi riferisco in particolar modo a D’Alema e Ferrero, che d’ora in poi userò come idealtipi - col tempo sono riusciti a diventare straordinari interpreti di singoli errori e difetti, che coesistevano nel vecchio partitone in una specie di equilibrio omeostatico (assieme a molte cose positive che per ora lascio sullo sfondo). In primo luogo, sul fronte organizzativo, la rigida strutturazione gerarchica degli apparati, che rese il partito diffidente e chiuso ad ogni tipo di contributo dal basso; poi, dal punto di vista ideologico, la vera e propria ossessione per l’elaborazione di un’ortodossia comunista nazionale, che mobilitò le menti migliori dell’elite culturale legata al pci in un lavoro ripetitivo e noioso di commenti e chiose a Marx e Gramsci.
A chi sia spettato cosa è abbastanza evidente. Più importanti nel presente contesto gli effetti, innanzitutto la sclerosi di vasi che avrebbero dovuto essere comunicanti, esercitati dalla sopravvivenza separata dei due vizi sulle condizioni di salute della “sinistra” tutta.

All’interno del vecchio pci tali caratteri erano come facce di una stessa medaglia, parti di una medesima strategia a cui il partito ricorse sin dai suoi esordi effettivi, nell’immediato dopoguerra, per affrontare le proprie contraddizioni interne, rese più acute dalla politica dei blocchi contrapposti calata di prepotenza dalla scena internazionale a quella italiana. La soluzione adottata, la cosiddetta “democrazia progressiva”, serviva in quel quadro a molti scopi non tutti compatibili tra loro.
Da un lato l’estrema lealtà istituzionale del partito ai principi liberal-democratici espressi in quella carta che aveva contribuito a scrivere. Un titolo di merito da far valere al momento opportuno contro le pregiudiziali anti-comuniste che tendevano ad escluderlo da ogni tavolo, a prescindere dai numeri in parlamento e dal gradimento popolare.
Dall’altro proprio il popolo comunista, i braccianti e gli operai, i lavoratori che partecipavano all’animata vita delle sezioni reclamando grandi trasformazioni. Che un po’ alla rivoluzione ci credevano ancora, se l’aspettavano prima o poi. Ed erano spinti a farlo a sentire le meraviglie raccontate dai compagni che erano stati in Russia, che avevano avuto l’onore di conoscere Stalin. E qualche cosa bisognava pure raccontare a costoro… Ecco, la rivoluzione verrà ma sarà una conquista progressiva, arriverà al culmine di quel processo democratico che abbiamo contribuito a costruire, sarà il suo esito naturale, necessario.
Per tenere in piedi due istanze a rischio di potenziale collisione c’era bisogno di una cerniera, quale venne ad essere l’apparato, la struttura capillare diffusa sul territorio, incaricata di attenersi alla linea dettata dai vertici e di tastare allo stesso tempo il polso della base.
Da qui discesero inoltre due corollari: la cronica diffidenza dei gruppi dirigenti del partito per le masse e gli eretici, per chiunque avesse voluto in qualche modo alterare dall’interno l’equilibrio raggiunto a fatica; quella nei confronti delle alternative a sinistra, configurate a lungo dall’area socialista, che avevano risolto in senso chiaramente liberal-democratico l’ambiguità che ancora segnava il partito comunista, divenendo pertanto non interlocutori, ma avversari, tanto nella corsa per la conquista di un elettorato limitrofo, quanto, soprattutto, nelle trattative e nei giochi di palazzo. A discolpa del pci si può dire che reagì ad un contesto non facile e riuscì a fare grandi cose nonostante la tensione interna, che ad ogni modo ne segnò l’intera vicenda.

Ma torniamo ai protagonisti attuali e alla spartizione di questa eredità: gli elementi che prima stavano assieme a sostegno reciproco, ora nella nuova distribuzione vengono fatti giocare l’un contro l’altro.
Chi ha portato a termine la “svolta”, il riformista col patentino qual è Massimo D’Alema, sa far di conto e per di più, nonostante tutta l’antipatia del caso, sa cavarsela con l’analisi e il ragionamento politico, cosa sempre più rara ultimamente. Peccato che dichiarazioni e commenti sagaci arrivino sempre dopo aver tentato la carta dell’accordo sottobanco, a spiegare (metter una toppa?) manovre occulte giudicate convenienti da un ristretto gruppo di saggi. Ha un bel dire Massimo che è una sinistra post-ideologica la sua, che formula proposte concrete in base alle quali costruisce alleanze. In realtà non c’è nessun accordo programmatico, siamo alle solite geometrie variabili a scopo elettorale, decise dall’alto in perfetto “old style” e pagate ad un insolito prezzo. La dieta ideologica fa subire alla trattativa una curvatura paradossale: il pd si astiene dal mettere il carico, è però pronto ad accogliere quello degli altri, a reagire all’idea di un candidato come Vendola (tutto sommato presentabile, trasversale) come neanche Don Camillo di fronte a Peppone. Insomma da queste parti “la sinistra” rischia di morir di fame.

Contro questa prospettiva, annacquata e d’apparato, insorgono gli altri, i compagni duri e puri come Ferrero. Per costoro è il partito che può alleggerirsi fino a divenire evanescente sul territorio o derogare alle coscienze dei singoli l’elaborazione di una linea comune, con la coriandolizzazione che ne consegue - ricchezza di prospettive, ci viene spiegato, mancanza di sintesi, verrebbe da dire – finché a tenerlo in piedi ci sarà un collante potente come il comunismo, il lascito del passato toccato loro in sorte. Le fusioni possibili per colmare il vuoto lasciato a sinistra dal pd sono tali solo in quel nome, l’apertura evocata all’inizio subito soverchiata dalla più urgente disputa nominalistica, un personaggio come Vendola guardato con sospetto. Bisogna ripartire dal comunismo, si dice, dalla sua attualità. Ma cosa significa in termini politici? Non è dato saperlo. Il problema non è nuovo, da sempre il pci va a sbatterci senza venirne a capo. La colpa non è soltanto sua, ma della teoria marxista stessa, strumento ineguagliabile di osservazione e critica economico-sociale, ma priva di una pars construens politica, di indicazioni di merito sull’alternativa radicale al sistema, la “rivoluzione” che pure prevede. Su quest’impasse teorica poggiano tanto le derive aberranti dei regimi totalitari, quanto le contraddizioni non risolte di una schiera di ottimi amministratori locali, uomini delle istituzioni, sindacalisti battaglieri, insegnanti e (sempre meno) operai che nella vita di tutti i giorni hanno contribuito al miglioramento di quelle istituzioni civili, “borghesi” che in quanto “comunisti” avrebbero dovuto rovesciare.

Il che ci riporta a quella fatidica notte di dicembre, allo sconcerto per “una svolta” palesemente in ritardo sui tempi (l’ ‘89 è l’anno del muro), tuttavia così sofferta da mettere immediatamente in moto un programma di “rianimazione”. Durante le cene di Natale di quell’anno i miei e i loro amici non parlavano d’altro. Zia Angela, che era comunista e per me aveva sempre ragione, quando intercettava Occhetto in tv partiva con simpatici epiteti. La cosa di per sé faceva ridere. Poi per consolarla provai a dirle: “Beh, quanto meno non vi chiamate più come quei cattivi, i comunisti che li arrestano come Ceausescu”. Mi rispose secca: “Quelli non sono comunisti, sono pezzi di merda!”
Credo di aver capito allora che ai grandi piace giocare con le parole e credere alle favole più che ai bambini. Che qualcosa in comune tra quei “comunisti” e i nostri ci fosse era abbastanza evidente. Perché chiamarsi allo stesso modo sennò? Perché tante reticenze sui misfatti degli altri, gli usurpatori indebiti di nome proprio? Seppi poi che condividevano un vuoto teorico, che ognuno aveva riempito a proprio modo finendo col trasformarsi in qualcos’altro, in un caso nel regime a partito unico, nell’altro in una forza social-democratica, e per entrambi la cosa non si doveva dire.

Oggi sarebbe tempo di fare chiarezza, di metabolizzare il lutto staccando la spina al progetto di una rinascita comunista, su cui si insiste con inutile accanimento. E invece Ferrero e la nebulosa che gli gira attorno ne fanno addirittura una pregiudiziale per l’unione, contro l’ipotesi di un contenitore di “sinistra” e basta troppo vago ai loro occhi, pur essendo di fatto costretti a definire la propria posizione in termini altrettanto generici. Il richiamo al lavoro, alle prerogative della politica in materia economica, alle misure necessarie per una più equa ridistribuzione delle risorse non è affatto sufficiente per parlare di comunismo. E d’altronde un’alternativa politica al sistema liberal-democratico, coi suoi meccanismi di controllo del potere, non c’era all’epoca del vecchio pci né tanto meno è stata inventata. In pratica si pretende di tornare a qualcosa che, in quanto tale, non c’è mai stato. Non soltanto. Presi dalla battaglia per la restaurazione linguistica del lemma “comunismo”, i rifondati à la Ferrero non hanno elaborato alcuna proposta credibile per i giovani precari, le fasce deboli a cui dicono di rivolgersi, articolata tecnicamente, presentabile quanto meno agli interlocutori più prossimi. Per arginare il neoliberismo selvaggio bisognerà mettersi di buzzo buono a pensare correttivi e strumenti d’intervento adeguati ai tempi. Anche a cercare in Marx un alleato quel che salterà fuori da questa fase di crisi non sarà in ogni caso un programma "comunista" in senso stretto. Ecco perché l’intera disputa sembra piuttosto un modo per imbrigliare un elettorato alla deriva, in primo luogo i giovincelli di sinistra come me, nelle maglie di una contrapposizione ideologica affascinate, ma vuota da cui di fatto sono già fuori, tesa soltanto a giustificare l'immobilismo seguito alla mancata "rifondazione". Se col pd la sinistra resta a digiuno, qui rischia un’intossicazione da cibo avariato.

Infine c’è Vendola, che un paio di cose sembra averle intuite: la necessità di fare i conti col proprio passato, anche quello più recente, quella di tenere aperto il dialogo con il pd, nonostante i colpi bassi. Un progetto il suo forse un po’ vago e inclusivo, che guarda a culture diverse – i verdi, l’istanza liberale dei diritti civili, la tradizione cattolico sociale – ancora non perfettamente amalgamate in un composto unitario, ma che ha tuttavia il merito dell’autocritica, dell’apertura nei confronti della società civile e lascia intravedere qualche speranza per il futuro.
Ma Vendola è solo, pertanto esposto al tiro incrociato degli avversari e al fuoco amico degli ex compagni di partito. Può fare affidamento soltanto sul suo carisma, il che talvolta purtroppo è un guaio. Nichi è abile con le parole, sa solleticare la riflessione dei suoi uditori su temi importanti con una capacità oratoria evocativa e immaginifica, ma tende a perdersi dentro le proprie costruzioni concettuali. Avrebbe bisogno di qualcuno al suo fianco, un rinforzo pragmatico, tecnico, visibile quanto lui, che invece al momento, per ragioni diverse, stenta a saltar fuori.
È solo, soggetto a tutti i rischi connessi all’eccessiva personalizzazione, che a sinistra non funziona granché e non è di per sé un bene. “Sinistra ecologia e libertà”, un nome lungo e infelice, è di fatto per tutti, molto più semplicemente, il partito di Vendola. Un’equazione che nel presente contesto va persino incoraggiata, ma che alla lunga potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, tanto per lui quanto per la nuova e ancora gracile formazione.
È solo, proprio come tutti noi, disgraziatamente di sinistra, che avremmo tanto bisogno di un partito un po’ più in forze, un partito unitario, di classi dirigenti impegnate a metterlo in piedi al più presto e invece ci toccano i movioloni da domenica sera in pieno inverno, le polemiche sulla classifica e lo scudetto. Purtroppo neppure Vendola da solo può fare primavera.

lunedì 22 febbraio 2010

Gelatinazero

In ritardo, come sempre, per il rotto della cuffia riesco a intrufolarmi tra il pubblico di Annozero. L’addetto di studio mi incastra in mezzo a tre ragazzini romani habitués del luogo, vispi e in odore di popolo viola, con cui familiarizzo subito.
Nel frattempo cominciano a sfilare gli ospiti della serata. La mascella di Belpietro, direttrice di Libero, seguita dal minuscolo encefalo che l’accompagna, Porro, anima ragionevole e felicemente minoritaria del Giornale, gli alfieri della cronaca politico-giudiziaria del Fatto, l’archivio vivente Peter Gomez e Nostra Signora dei Tribunali Marco Travaglio, Norma Rangeri, critica televisiva del Manifesto, ignota ai miei giovani vicini che invece conoscono a menadito la squadra di Padellaro. Arriva anche Vauro, l’unico a strappare applausi a telecamere spente. Si consuma il rituale delle strette di mano, delle pacche sulle spalle a cui partecipano tutti fuorché Travaglio, che tira dritto al suo posto senza dar confidenza a nessuno.
Non c’è neppure un politico, ma tanto meglio. Di solito ad un certo punto si inceppano e amen, mentre i giornalisti talvolta regalano qualche sorpresa.

Tema della puntata “la gelatina”, la paccottiglia eterogenea di appalti ordinari ed emergenze gestita dalla protezione civile coi super-poteri e le mille deroghe di cui gode. La quadratura del cerchio per un nutrito gruppo di funzionari pubblici, trasformati in veri e propri ras locali, e la schiera di imprenditori “amici”, sempre pronti a vezzeggiare la rinata corte del Re Sole con nuovi e fantasiosi omaggi in cambio di commesse statali a nomina diretta.

Un tizio ci istruisce sulle pause pubblicitarie, siamo pregati di far silenzio e di non allontanarci. Fa il suo ingresso anche Santoro, parte il conto alla rovescia e ha inizio lo show.
Il canovaccio è più o meno lo stesso di sempre. Porro è conciliante a differenza di Belpietro che parte all’attacco col suo morso ferrato. Poi però fa l’ingenuo sulle frequentazioni e i massaggi di Bertolaso, Travaglio si impunta, scatta l’accusa di moralismo e la replica piccata di quest’ultimo che minaccia di abbandonare lo studio. Santoro bacchetta tutti, ma ha in serbo le sue carte per mettere in difficoltà le anime belle. È un grande attore, come osserva la Rangeri, conosce i tempi della commedia dell’arte, non come Travaglio che sembra uscito da un melodrammone con Amedeo Nazzari.

La vera chicca della serata è l’intervista a Riccardo Fusi, un toscanaccio schietto che tra grandi risate si dice pronto a prestare il suo elicottero a chiunque garantisca appalti alla sua impresa. Esilarante! Per uno così bisognerebbe inventare qualcosa, che so, “l’Alcatraz dei famosi”.
Finalmente poi si vede L’Aquila in tv con le macerie ancora per strada, i vicoli chiusi, gli edifici storici in rovina, senza puntelli, ulteriormente provati per il trascorrere del tempo e le intemperie. Una città fantasma la cui ricostruzione chissà quando sarà possibile, visto il fiume di soldi spesi per le new town tanto celebrate dai teorici del Buon Umore, i Vespa e i Minzolini che non hanno perso a tempo a dichiarare risolta al meglio l'emergenza. Qui Santoro fa tana libera tutti, apre un varco nel muro della disinformazione televisiva sul terremoto che altri, in primis Iacona, percorreranno con maggior dovizia di particolari. Il che mi dà, ancora una volta, un’ottima ragione per continuare a guardarlo. Infine si torna alle questioni più pruriginose, le intercettazioni di un sottobosco di piccoli imprenditori e faccendieri, letteralmente a “servizio” di molti capi - giudici, amministratori, funzionari – coi loro cessi da sturare, le stanze da ripulire di resti loschi e mille altre faccende da sbrigare. Cosa non si è disposti a fare per entrare nelle grazie di chi conta. Fine della puntata, tutto regolare, proprio come da casa. Solo un po’ più coinvolgente e scomodo. Stop.

E invece, proprio quando non me l’aspetto, scatta la bagarre. Per ragioni di tempo è saltato lo spazio generazione zero, quello in cui intervengono i ggiovani dalla platea. La cosa, lo confesso, non mi è dispiaciuta affatto. Di solito a quel punto mi annoio mortalmente e mi vien voglia di cambiare canale. Ad ogni modo le reazioni sono piuttosto vivaci. Una ragazza è particolarmente infervorata, non sa cosa raccontare ai suoi al rientro. Credo venga dalla provincia di Messina, dove una melma un pelino più consistente di quella raccontata finora ha investito un intero paese, portandosi via case, cose e persone. Di questi figli di un dio minore, messo sicuramente peggio di quello toccato in sorte ai rampolli di Balducci, non parla nessuno.
Santoro si scusa, è mortificato, promette di dedicare un’intera puntata alla vicenda. Interviene anche un giovane aquilano, pacato ma risoluto. “Non doveva permettere a Belpietro di dire che le casette di Berlusconi vanno bene, che all’Aquila siamo sistemati. E la mia intervista, perché non è andata in onda? La seguo da Samarcanda, sono cresciuto con lei, ma stasera mi ha deluso.” A questo punto Santoro reagisce. “Ma se abbiamo fatto vedere le macerie e stasera la puntata era comunque dedicata ad altro.”
È vero, ma tanto non basta, la tensione si taglia con il coltello. Il ragazzo va via bofonchiando insulti contro il servizio pubblico. Nel frattempo il suo telefonino comincia a trillare, riceve messaggi all’impazzata. Tutti gli amici che hanno seguito il programma da casa, infuriati più di lui.
Mentre cammino verso l’uscita mi torna in mente l’osservazione di Santoro sulla gelatina, un ambiente torbido a tal punto che non è più possibile riconoscere i buoni e i cattivi, fare distinzioni tra diversi gradi di responsabilità. L’impressione è che questa melassa ci stia inghiottendo tutti.

martedì 12 gennaio 2010

Roberto Bolaño, 2666

Un anno fa, mese più mese meno, in una conversazione telefonica con un amico che purtroppo non vedo mai, tra novità e aggiornamenti personali, chiacchiere sparse, disordinate e incoerenti, salta fuori la dritta, “2666, Bolaño”. Ne prendo nota su un foglietto, cosa perfettamente inutile dal momento che all’indomani della mia innocente “scoperta” mi ritrovo a inciampare nel romanzo e nell’autore in questione dappertutto, terze pagine dei principali quotidiani, recensioni su riviste che coltivano ancora qualche timida pretesa culturale, vero e proprio proselitismo sul web più agguerrito e informato. Diffidente nei confronti dei fenomeni letterari di massa, forse, più realisticamente, punta nell’orgoglio per essere arrivata a Bolaño così tardi e solo dietro suggerimento altrui, lascio sedimentare la curiosità, mi trattengo ignorandolo in libreria per un bel po’. Fino a quando mi sembra di nuovo possibile raccontare a me stessa, con un minimo di credibilità, di essere io a scegliere questo romanzo e che lui si presenta a me quando i tempi sono maturi per il nostro incontro. Un meccanismo cervellotico, che riflette a sua volta un sentimentalismo egocentrico, infantile e stucchevole, lo ammetto. D’altronde con Bolaño è la mia prima volta.

Com’è andata? Un libro complesso, difficile. Eppure senti che è importante, che non puoi arrenderti, che devi andare avanti. Anche quando il muro d’acqua di questa storia complicata ti si rovescia addosso sommergendoti, perdendosi in mille rivoli che fatichi a seguire, impegnata, come sei, a restare a galla.

Un’ossessione letteraria, la ricerca di un enigmatico scrittore di cui si sono perse le tracce da tempo. Pochi gli elementi da cui partire: voci che potrebbero rivelarsi infondate, una descrizione sommaria, neppure una foto. Tutto converge verso Santa Teresa, una città desolata dello stato del Sonora in Messico, degna di nota solo per il fatto che lì accadono strani omicidi: giovani donne rapite e assassinate, non si sa da chi, non si sa perché. Attorno il deserto, la terra di mezzo, la frontiera in cui tutto sembra destinato a rimanere irrisolto, dilatato, sospeso.

Brevi flash di una trama intricata che non provo neppure a riassumere. Ogni quadro ha vita a sé stante, in ciascuno di essi lo sguardo si perde come in una pala d’altare o in quei libri per bambini con i diorami, le figurine di cartone che saltano fuori dalla pagina. Dettagli laterali, lasciati lì quasi per caso, rivelano talvolta l’incastro. Per il resto l’unità del racconto è affidata, direi, ad una tonalità di luce, tenue e rarefatta, per niente lieve o confortante, che disegna contrasti netti lasciando le cose in penombra. Sole che non riscalda, alone opalescente che si diffonde a partire dall’ombra, via via sempre più sinistra, dello scrittore scomparso. E arrivi alla fine, che fine non è, in un crescendo nevrotico, che è parte della storia e monta in te che stai leggendo. Nessun mistero risolto, neppure una risposta agli enigmi che anzi riverberano in questo gioco continuo di lampi improvvisi, di salti apparentemente definitivi, che rivelano nessi con cose lontane o che saranno, proprio quando non te l’aspetti e poi ancora non appena ti illudi di essere sulla buona strada, a rovesciare i piani attraverso “innocenti” cambi d’angolazione.

Insomma finisce il libro ma non hai la benché minima idea di come vada a finire la storia, il che forse è normale dal momento che il volume in questione raccoglie solo le prime tre parti del romanzo fiume di Bolaño, a cui seguono le ultime due (?) raccolte in un altro tomazzo che devo prontamente comprare. Sarà…la mia sensazione è che molto poco “si concluderà” nel senso tradizionale del termine e che continuerò a godermi quest’opera straordinaria con la frustrazione di non aver risposta alcuna, di continuare a rimbalzare da un piano all’altro, di ipotesi in ipotesi, di dubbio in dubbio, accompagnata solo da questa luce fredda e inclemente che getta nuovi squarci su tutto e tutti. Il peso di questa insoddisfazione e il fastidio, epidermico e tutto personale, per i romanzi eccessivamente lunghi e complicati sono tuttavia compensati dall’incanto dei dettagli – personaggi indimenticabili, che si affacciano e non tornano più, dialoghi, descrizioni, singole frasi – dallo stupore del “come ha fatto? non si può spostare una virgola, non si può dire meglio!” che molto spesso, quasi distrattamente, Bolaño regala. Quell’esperienza inconfondibile che si prova leggendo chi è capace di scrivere.