Caso e fortuna vanno a braccetto, anche se ovviamente non sono la stessa cosa. Non è affatto detto che un incontro fortuito sia allo stesso tempo fortunato, né i colpi di fortuna arrivano sempre per caso.
Segue poi il mediano “sorte”, più ambiguo e sfumato, privo com’è di quell’aurea positiva che di solito (ma non sempre) accompagna il termine “fortuna”, e tuttavia più prossimo a quest’ultimo che al caso.
La sorte, quella forza oscura capace di rovesciare il corso delle cose all’improvviso, senza alcuna ragione e indipendentemente dal nostro intervento, può essere buona o cattiva, radiosa o nefasta. Diversamente dal caso, ha senso, secondo Aristotele, solo per gli individui dotati di libero arbitrio o, correggendo un po’ il tiro e allargando la cerchia, in relazione a esseri viventi con interessi valutativi e capacità intenzionali.
In parole povere, a un blocco di marmo non gliene importa un fico secco di finire nelle mani di Michelangelo o sepolto per secoli nelle profondità di una cava. Che si verifichi l’una o l’altra prospettiva è, in sé, più o meno probabile, in buona parte casuale. La pietra, di certo, non festeggia né si dispera.
Per chi, invece, è addestrato a scegliere, anche solo a naso, le alternative in ballo contano eccome. Si provi a chiedere al tale che una volta perse l’aereo, proprio prima che andasse a schiantarsi, se è uguale, indifferente, un lancio di moneta e nulla più. Se è solo un caso o non è anche fortuna. E pure per un cane, scommetto, c’è una bella differenza tra una vita in canile e la convivenza con un’allegra famigliola di provincia, munita di osso e giardino, bau!
Se, dal punto di vista filosofico, il caso ha provocato e provoca scossoni e paturnie epistemiche e metafisiche, la sorte (e la sua controfigura imbellettata, la fortuna) solleva ulteriori grattacapi morali.
E già, la sorte non chiede permesso, fa saltare ogni logica, ogni argomento. Se ne infischia di aspettative e meriti, non riconosce gli sforzi di una vita per imparare a scegliere e a fare bene. Tira su e giù senza passare dal via, ignorando il percorso. Un vero e proprio scandalo, manda all’aria ogni ordine e annulla ogni volontà.
Naturale che molti sistemi morali siano stati eretti con lo scopo precipuo di imbrigliarla, di affrancarci dalla sua morsa o, quanto meno, di limitarne i danni, consolandoci delle amarezze di un destino crudele e immeritato, temperando i narcisismi e le esaltazioni che una fortuna spudorata solletica. Rigide forme di disciplina e auto-controllo affiancate a tentativi di training autogeno, depositati come relitti nei tormentoni del passato arrivati fino a noi, “quisque faber est fortunae suae” (che nella versione originale non suona proprio così, ma fa lo stesso). Tutto per sottrarre terreno alla sorte, per convincerci ad essere autonomi, il che è una bella cosa, peccato non sia del tutto vera. Non c’è codice d’onore, sobrio e frugale che sia, capace di recidere ogni legame con l’esterno, sorte compresa, e che aldunque non costi troppo, in termini di rinunce a pezzi importanti di vita e felicità. La quadratura del cerchio non c’è, e allora?
Non resta che cedere il passo alla politica, che triangola inevitabilmente con la morale personale, si incunea nella trattativa dei singoli con il mondo e con gli altri e si fa carico del problema della sorte, per cui è, o dovrebbe essere, meglio attrezzata, proprio in virtù dei meccanismi di cooperazione.
Il pensiero politico ha con ciò ereditato una diffidenza istintiva nei confronti della sorte, anzi, si può dire si sia costituito apposta per affrontarla con armi migliori. Non è forse per ridurre il numero di sorprese sgradite che i cittadini scendono a patti con il Leviatano?
Quel che talvolta sfugge è che la riflessione politica non ha grandi simpatie nemmeno per la fortuna in senso stretto, intesa come condizione favorevole inattesa e del tutto casuale. Sì, certo, Machiavelli ne parla diffusamente, ma a parte il fatto che il nostro (in teoria repubblicano) si trova a scriver trattati di realpolitik per signorotti ambiziosi e attaccabrighe, spesso e volentieri in balia della sorte. Bisogna notare che in questo caso la fortuna è l’occasione propizia che permette al principe di manifestare la sua virtù. Virtù tutta politica, che a sua volta consiste anche nella capacità di riconoscere il momento opportuno per certe scelte. Qui, circolarità a parte, il sodalizio tra caso e fortuna si allenta, connettendosi quest’ultima all’espressione di un talento che non è affatto occasionale, che anzi può assumere i tratti della predestinazione ineluttabile, di vero e proprio fato.
Come dire c’è una bella differenza tra il colpo di fortuna di Maradona che, tra le altre cose, è capace pure di cogliere l’attimo, e quella del brocco che, senza sapere come, segna il gol della salvezza.
Ora se il primo tipo di fortuna, il successo legato all’esercizio di un talento fuori dal comune - concetto insidioso, per carità, e suscettibile di scivoloni populistici - ha trovato buona accoglienza nel nucleo duro dello spirito capitalista, che, non a caso, ha sempre visto di buon occhio l’accumulazione di fortune intese come beni e proprietà, segno esteriore di un’operosità produttiva che merita il giusto riconoscimento, come spiega Weber mettendo in relazione il fenomeno con il sostrato etico protestante, sul secondo, il colpo di fortuna random, l’ostracismo è condiviso.
Non c’è nessuna teoria politica seria che si auguri, che so, che la propria classe dirigente venga tirata a sorte, senza criteri di selezione, confidando nella sola fortuna. E mentre la legittimità delle imposte sul reddito è ancora oggetto di discussione per il pensiero liberale, sull’opportunità di regolamentare le successioni, bonus del caso e nulla più, da Mill in poi ci sono pochi dubbi.
A dire il vero bisognerebbe aggiungere che, con tutta la simpatia per le fortune meritate, il liberalismo, in quanto teoria politica, si è sempre preoccupato di sottoporle a vincolo, obbligandole da un lato alla trasparenza (per il principio secondo cui meglio una lobby dichiarata che una occulta), dall’altro a rigidi meccanismi di controllo.
E ora veniamo a noi, a questa Italia imprevedibile in cui tutto si dice e niente si fa e viceversa (così a caso, a seconda della fortuna), alla cultura politica che esprime un paese che alla botta di culo ci tiene assai, tanto da dotarsi di innumerevoli ordini di figure propriziatorie, San Gennaro, Padre Pio, la Madonna di Polsi, a cui devoti ‘ndranghetisti chiedono la grazia senza neppure un leggero imbarazzo, giù fino al munaciello, allo scazzamurrill, al folletto padano. Dove scarse, invece, sono le occasioni per chi se le merita davvero. Non resta che sperare nell’intervento divino di Maria De Filippi, che, non è sempre detto, ma tante volte funziona. Eri uno sfigato, ignorante e un po’ sessista? Oggi sei il nuovo idolo del tubo catodico e domani, chissà, coordinatore nazionale del partito delle virtù. Tutto può essere in un tal contesto.
Ottimisti sempre, al di là di ogni dato di fatto, di ogni ragionevole perplessità, il motto che condensa l’odierno spirito nazionale, perfettamente incarnato dal nostro premier entusiasta e dai suoi allegri sodali, la sedicente destra liberale, che non sa o confonde la lezione dei maestri, i conservatori di una volta, i liberali all'antica, contraddistinti proprio da un pessimismo atavico, lucido, ostinato.
Si vede che dai noi guardano a più esotiche tradizioni o forse non ne seguono nessuna. Vanno alla cieca affidandosi a un’altra orba, la dea bendata, convinti che aldunque vedrà bene di star dalla loro parte.
giovedì 9 settembre 2010
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