L’altro libro prezioso, circolato sotto mentite spoglie come collezione di ricordi sparsi senza troppe pretese, memorie rapsodiche di un vecchietto arzillo, che ha dalla sua un archivio infinito di aneddoti e storielle, di amici famosi a cui fare il ritratto, per gioco, per affetto e poco altro, è Mutandine di chiffon del soave Fruttero.
Snob come solo i torinesi sanno essere, intriso di sano e incorruttibile pessimismo sabaudo, di uno scetticismo sfrenato che non si è mai fatto illusioni (a differenza di quello un po’ tirato, sofferto, nel complesso poco credibile, di Berselli, inguaribile sentimentale, modenese della Bassa, venuto su tra feste dell’Unità, lambrusco e salamelle), Fruttero declina il suo ruolo nella variante “Gian Burrasca attempato”, irriverente guastatore che ghigna di tutto, infischiandosene di piaggerie, perbenismi e falsi pudori, umorista à la Voltaire che zompetta qua e là, divertendosi a mescolare alto e basso, sacro e profano.
Tanto alle lacrime ci pensa la vita, possiamo tranquillamente dedicarci ad altro. Affiora tra le pieghe una morale tocquevilliana di antica ascendenza liberale, a tratti conservatrice, tradizionalista, un po’ retrò, a tratti profetica, e non in virtù di chissà quale misteriosa capacità intuitiva, ma per il suo attaccamento alle cose, a inseguirle fino all’ultimo dettaglio, con sguardo lucido, disinteressato, più attento alle piccole crepe della realtà, ai bachi, agli errori che ai successi.
Svirgolate a parte, Mutandine di chiffon è soprattutto una meravigliosa, inappuntabile, lezione di stile, una chiara, incontrovertibile dimostrazione di cosa significa fare sul serio l’onesto mestiere dello scrittore.
Scrivere bene, scrivere bene di tutto, dal taschino della camicia ai propri affetti più cari, usare parole e sintassi come chiodo e martello, captare quando suonano, e quando proprio non va. È questa l’unica ambizione, riservata e modesta, che Fruttero ha mai coltivato e gli è riuscito davvero, per nostra fortuna.
Non soltanto un autore di gialli, se con ciò si intende in qualche modo sminuirne la grandezza. Anzi, mi correggo, soprattutto un autore di gialli, come direbbe lui ingenuamente, come a ribadire l’ovvio, ma di gialli a modo, perfetti, di noir coi controfiocchi, che non hanno nulla da temere sistemati in bella vista in libreria tra Pasolini e Sciascia. Che, al contrario, testimoniano il gusto per un piacere più sottile, più raffinato, più perfido e giocoso.
Affacciati sull’abisso, c’è chi al dunque preferisce chiudere con una buona battuta.
Quanto a raccontar storie di mestiere, se si hanno ancora dubbi su cosa fa uno scrittore quando è all’opera (e certamente è così dal momento che la questione è oscura), si può stare a sentire Fruttero che lo spiega a proposito di un altro, il Lucentini di Fruttero&Lucentini, l’amico di una vita, Franco.
(E con ciò passo finalmente al secondo saccheggio. Chi a questo punto fosse stremato, d’ora in poi, nei post intitolati “le parole degli altri”, può saltare direttamente al testo fra virgolette.)
«La sua prosa è fatta di quattro assi, mezza dozzina di chiodi, qualche pezzo di spago, un elastico, un paio di turaccioli, poche rondelle rugginose; è un’arte povera, da prigioniero, da recluso, da naufrago, da eremita, e non ha niente a che vedere col realismo né col neorealismo. L’uomo che ha messo assieme per implacabili eliminazioni questa scrittura fanaticamente dimessa è lo stesso che idolatra Ariosto e Flaubert, che ha tradotto per suo divertimento il Coup de dés di Mallarmé, che cita a memoria interi brani del D’Annunzio romanziere, che delle Finzioni di Borges ha dato una versione italiana che non sminuisce di una venatura i sontuosi e ironici marmi dell’originale.
Ottenere con mezzi volutamente infimi effetti d’intensa poesia è un obiettivo che molti scrittori “colti” si sono posti, soprattutto in Italia. Ma, in Lucentini, questo elemento di scommessa, di sfida sperimentale mi sembra secondario, se pure c’è. Nessuno, meno che mai l’interessato, sa che cosa effettivamente passi per la testa di uno scrittore nel momento in cui prende la penna in mano, ma gli amici di Lucentini sarebbero pronti a scommettere qualsiasi cifra che egli si accosta alla sua Olivetti, posata su uno sgabello, borbottando ‘Oh, allora…’, ‘Dunque, vediamo…’, ‘E che ci vuole?’, vale a dire con le stesse frasi, lo stesso animo, con cui l’hanno visto infinite volte smontare una lampada, segare una gamba di sedia, tendere un impianto elettrico, riparare un trenino, trafficare dentro un motore d’auto, ritagliare un vetro per una delle sue incisioni olandesi. Pantaloni di velluto, camicia a quadri, giacchetta da ladro di biciclette, e mani delicatissime, pazienti, ostinate, che non rifiutano nessun impegno e non hanno mai paura di “sporcarsi”. L’arte è per lui un solo grande cantiere, e il più duro giudizio che gli si possa sentir esprimere a proposito di un altro “lavoratore” – maestro della pittura veneta, poeta elisabettiano, regista di film western – è che “non sa fare”.»
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