giovedì 12 novembre 2009

Stefano Cucchi o della malvagità del banale

Quando nel 1961 Hannah Arendt cominciò a seguire, come corrispondente per Il New Yorker, il processo ad Adolf Eichmann in corso a Gerusalemme, non poté non registrare quel che vedeva: un uomo qualunque, un mediocre nel senso di medio, non uno brillante, ma nemmeno uno stupido e neppure dannatamente cattivo, un tipo normale. Un esemplare comune di un’umanità banale, uno dei tanti che contano poco, non decide le regole del gioco, ma vi si adegua alla perfezione, persino più di quanto gli è richiesto. Osservanza stretta e rigorosa che non discende da intima adesione, come nel caso del mistico o del fanatico, ma da imperturbabile, serena, olimpica incapacità di riflettere sul peso delle proprie azioni.
- Il “come” era comandato, il “che cosa”, beh, non erano fatti miei.
Questa la strategia difensiva di Eichmann e laddove molti intellettuali gridarono allo scandalo, negando ogni parentela con quel “mostruoso” omino, la Arendt, invece, si fermò a guardare, concludendone che quel signor nessuno ci somiglia. Aveva semplicemente smesso di pensare a quel che faceva, alle conseguenze delle sue scelte e delle sue omissioni, alle connessioni tra regole valide in certi contesti - la famiglia, gli amici, una buona reputazione sociale - e sfere di vita separate come il lavoro, per cui si dà il caso che uno si occupi della deportazione di massa di migliaia di persone e lo faccia bene, senza troppe domande. Certo il nazismo aveva concepito e predisposto regole aberranti, ma senza questi zelanti esecutori non avrebbe potuto portare a termine il suo progetto delirante e mortifero. Soprattutto quando questa narcolessia della ragione diventa prevalente, impedito il sorgere di ogni dubbio, messa a tacere ogni critica con un semplice gesto, un tratto di penna, “sono solo fatti miei” o “non sono fatti miei”, vuote formule rassicuranti dentro cui nascondersi, tane o trincee per battaglie quotidiane, non c’è regola, ordinamento, principio, per quanto equo e opportuno, che tenga.
Da quando è morto Stefano Cucchi non smetto di pensare a quanta gente ha incontrato. Non voglio in alcun modo ridimensionare le responsabilità, penali (degli aguzzini di Stefano e di quanti hanno avuto un ruolo in questa sporca faccenda) e politiche. “Casi” come questo non sono affatto casuali, gli abusi di potere e l’impunità delle forze dell’ordine, la solidarietà ambigua e omertosa tra istituzioni, che invece dovrebbero controllarsi a vicenda, sono purtroppo la regola in questo paese malato. Eppure quel che davvero mi incuriosisce e mi inquieta in questa storia è questa folla di personaggi (persone solo in certi contesti, come il vecchio Eichmann) con cui Stefano è entrato in contatto, con uno sguardo o affidando loro qualche richiesta, fiducioso che qualcuno (un essere umano?), prima o poi, lo stesse a sentire.
Il magistrato, troppo occupato per poter alzare il naso dalle sue scartoffie, per notare i lividi o il padre di Stefano, presente in aula, una “prova evidente” che il ragazzo non era un vagabondo, un “senza fissa dimora”, che i domiciliari magari si potevano valutare (tralascio al momento considerazioni sullo scenario che si apre per quelli che casa e famiglia non ce l’hanno per davvero e che se muoiono, non protesta nessuno).
L’avvocato d’ufficio che saluta gli sbirri, e no, lui no, non vuole rogne. Che ne sa dei lividi, c’erano, non c’erano? Del collega segnalato da Stefano non ne ha mai sentito parlare, e poi cosa avrà mai più di lui? “Il tribunale è un brutto ambiente, lasciatelo dire da uno che ne ha viste. Bisogna chiudere un occhio e sgomitare, sennò ti mangiano”.
Il primario inavvicinabile, che non ne vuol sapere, ha dato le sue direttive, “moduli chiari, mi raccomando, tutto registrato a modo. Occupatevene voi, io passo prima di smontare”.
Gli infermieri che sbuffano lamentandosi: “dice che non mangia fino a quando non parla col suo avvocato. Deve ancora firmare, ricordamelo. A proposito hai visto i turni? Quella befana come al solito s’è sistemata bene”.
I piantoni in portineria, stanchi per definizione, che confabulano, con la mano sul citofono, biascicando per non farsi scoprire da chissà chi: “ci sono ancora quelli di ieri, ma non c’ho voglia di andare di nuovo in reparto. Ci sono appena stato.” “Ma digli che non hanno il permesso, di andar dal giudice e di tornare domani”.
Non ho le prove, ma non deve essere andata troppo diversamente da così. Certo c’è qualcuno che picchia fino a uccidere, che è colpevole e che dovrebbe essere processato. Poi c’è la schiera, sempre più numerosa, dei solerti cooperanti, col loro brusio di fondo indecifrabile, la beata ottusità che li contraddistingue, e ancora una volta un muro, a dividere un ragazzo che sta morendo, di fame e di sete oltre che di botte, dagli unici che saprebbero prendersene cura.

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