martedì 25 maggio 2010
Donna, che ‘a Maronna t’accumpagn!
A quanto pare noi donnine del bel paese dovremmo proprio ringraziare la Madonna.
E già, sarebbe merito suo l’aver salvato il femminile dalle maglie del maschilismo più becero. Nella devozione a lei indirizzata avrebbero trovato riparo e accoglienza principi e valori espulsi dalla scena pubblica, i quali recuperarono spazio all’interno delle mura domestiche, laddove l’ordine simbolico della madre venne confinato e al tempo stesso la fece da padrone.
Di più, il culto mariano avrebbe addirittura “santificato” tale ordine agli occhi della comunità, conferendogli un’autorità particolare, un filo rosso, una continuità di sguardo che unisce in una specie di piano-sequenza mamme, zie, nonne a quella statuina di gesso nella nicchia e che conosce bene chi è nato e cresciuto in una famiglia italiana. Il fenomeno infatti è tipico dei paesi cattolici come il nostro, dal che si dedurrebbe che il cattolicesimo stesso sia un terreno più fertile, più pronto a riconoscere il valore della figura femminile, ad accoglierlo e farlo proprio rispetto ad altre confessioni cristiane. Una conclusione condivisa persino da gloriose pioniere del femminismo nazionale.
Sarà… A me sembra che sui “fondamentali” le donne di certi paesi riformati, nel Nord-Europa, ma pure in qualche borgo valdostano, siano indiscutibilmente avanti e da almeno due secoli. La tentazione di far prevalere un simbolico consolante su una realtà grama, di “prendere il buono che c’è” è rischiosa e mistificante.
Insidioso concedere un valore eccessivo a una specificità femminile desunta o costruita a partire da pratiche distintive quali l’amore materno o la cura, proprio i due ruoli che a lungo hanno incasellato la vita delle donne in un percorso a tappe ordinato in partenza, senza troppe alternative, come per la povera Maria, che non poteva certo dire di no all’angelo.
Non soltanto. Questa visione del “femminile”, della maternità, della cura è parziale, sarebbe a dire favolistica, e lo svelano proprio le favole, le filastrocche, le ninna nanne, che si sono incaricate di rappresentare la parte oscura, di dire il “non detto” in forma di gioco, di scherzo a chi si presume non possa capire (e invece capisce benissimo), i bambini. A loro si racconta la stanchezza, l’insoddisfazione per una maternità non scelta, per la costrizione alla cura che a volte è pessima cura. Ed è tutto un fiorire di abbandoni nel bosco, di orchi e streghe assassini, di madri e padri che di loro non ne vogliono sapere.
Ecco, voglio forse buttare “quel poco di buono che c’è” nel connubio tra religione e cultura popolare nostrana?
No, la Madonna, confesso, mi sta pure simpatica. Suggerisco solo alle giovani donne italiane col pallino della maternità a fasi alterne, quelle che si riscoprono a recitare l’Ave Maria sperando nel miracolo, ma che in fondo mica lo sanno tanto bene, di provare a canticchiare subito a seguito “ninna oh, ninna oh, questo bimbo a chi lo do?”.
Se il desiderio permane sarà il caso di cambiare paese.
martedì 4 maggio 2010
Le parole sono importanti
Sono un’elettrice di sinistra. Un’estremista moderata o una moderata estremista che dir si voglia. Una che diffida delle contrapposizioni nette, preferendo la pratica più modesta del confronto ragionato su proposte concrete. Che non si scandalizza per le alleanze a patto che esse avvengano alla luce del sole, siano finalizzate a obiettivi chiari, condivisi e non costino troppo. Su certi principi e certi valori - laicità, libertà civili, giustizia sociale, un’idea sostanziosa di bene comune - non voglio arretrare di un passo.
Di questi tempi per una così trovare non dico una casa, un partito, ma almeno un riparo provvisorio è impresa ardua. Non sono pochi quelli che, meno scrupolosi e pazienti della sottoscritta, hanno da tempo gettato la spugna scegliendo di non votare. In questo senso ha ragione l’Annunziata, l’astensionismo coinvolge pure “i moderati”. Ma “moderati” è un’etichetta vaga e, a meno che non si escludano a monte quelli come me - giovani precari magari un po’ spiantati, laureati col piercing e il phd, confusi sì, ma non al punto da scambiare la politica con il derby allo stadio – “moderati” vuol dire tutto e niente.
Perché è così difficile trovare una collocazione a sinistra? Per quanto mi riguarda il problema è retorico prima ancora che politico. Lo so, può sembrare superficiale, ma è brutalmente vero. Non amo i paroloni altisonanti, il tono ampio, magniloquente delle grandi celebrazioni e dei massimi sistemi. Mi viene una fitta allo stomaco ogni volta che Ferrero, o chi per lui, se ne esce con qualche citazione nostalgica, tirata fuori da un ciclostile degli anni ’70.
Un dolore lancinante e lì mi ha perso, non riesco più a seguirlo a dispetto delle intenzioni e dei contenuti. Persino Vendola, che pure è più simpatico e à la page, talvolta scatena in me reazioni inconsulte. Quando parte con le sue bordate evangeliche, coi predicozzi da avventista del settimo giorno mi trasformo nella ragazzina dell’Esorcista e non è un bel vedere.
Il punto è che mi piace l’asciuttezza, il ritmo stringato, l’inversione e l’ironia. Ho letto Sciascia e Camilleri (ma avrei potuto citare gli americani): non so che farmene di sermoni, fioriture e birignao. Molto meglio una battuta incisiva, un gioco di parole, un graffio.
Non amo tuttavia il compiacimento verbale fine a se stesso, il calcolo a tavolino del polemista scafato, l’aria sicura e strafottente del primo della classe che si trastulla pensando “ora la sparo grossa”. Non voglio che mi si squaderni il mondo come fossi un’imbecille, preferisco farmelo raccontare da un compagno di ventura, da qualcuno che si considera sulla mia stessa barca, capace ogni tanto di strapparmi un sorriso sulle nostre miserie senza per questo salire in cattedra. Non a caso digerisco Travaglio a fatica anche se sa il fatto suo, mentre di Berselli sento già la mancanza e non credo mi passerà.
Non amo neppure l’umor nero, il veleno e il sarcasmo. Per questo non mi entusiasma Grillo, che, a mio avviso, ha perso il suo smalto: è nervoso e appuntito, biliare, si trasforma ogni giorno di più in una specie di Savonarola di noi altri. E poi ho detto che mi piace il linguaggio semplice, diretto, non per questo sciatto o inutilmente volgare.
Perché non guardo al Pd?
Non è esatto, in effetti lo faccio ma ritrovo all’interno del suo corpaccione tutti i difetti menzionati prima. Il veltronismo zuccheroso passato in eredità a Franceschini, un meringone moralista che neanche il libro “Cuore”. L’isterismo martellante della Turco, per la quale proporrei uno spegnimento temporaneo, almeno finché non recupera un po’ di serenità. La spocchia altezzosa di D’Alema, che spesso ha ragione, ma è insopportabile.
A questo proposito è necessaria una precisazione – D’Alema ha ragione per me, che sono un po’ cervellotica e concedo a mia discrezione qualche credito agli antipatici, ma non si illuda Massimo, non credo di essere un buon campione – a cui segue una breve riflessione – la simpatia, berlusconismo a parte, non è un aspetto deleterio, mistificante o secondario della politica, come di ogni relazione umana. Sarebbe ora che anche la classe dirigente di sinistra se ne rendesse conto.
Bersani potrebbe anche attrarmi, non dico di no. Schietto, pragmatico, ironico e sornione sembra il candidato ideale per un “dalemismo dal volto umano”, progetto che in sé non mi dispiace. Trovo simpatici i suoi quadretti da bar, il realismo contadino e operaio che non è mai caricatura, le metafore artigianali e strampalate, purtroppo a volte indecifrabili. Mi spaventano invece le sue improvvise e inspiegabili assenze proprio quando accade il finimondo. Se ripenso al dicembre pugliese prima delle regionali ho una stretta al cuore, tanto più per come è andata a finire. Emiliano che accusa Vendola di voler distruggere il Pd e la sinistra tutta, Vendola che contrattacca gridando al complotto con Casini. Primarie tardive, pasticciate, il silenzio assordante di Bersani, la presenza eccessiva di D’Alema, tutto questo per vincere di misura, di fatto grazie alla spaccatura degli avversari. E poi i festeggiamenti in piazza, Vendola che stappa lo champagne, Emiliano al suo fianco ad abbracciarlo. Il presidente neo-eletto che si dichiara pronto alle trattative con l’udc, io a casa che sembro Tafazi. Una sola domanda che mi ronza in testa: non potevano sentirsi in agosto e risparmiarci ‘sta manfrina?
Comunque, archiviando per un momento le perplessità, lasciando alle spalle il passato, devo riconoscere che giovedì ad Annozero Bersani è riuscito a compiere il miracolo: la sua replica a Travaglio, alla Innocenzi e alla Rangeri era pressoché perfetta, metricamente inappuntabile, chiara, diretta, appassionata e al tempo stesso priva di cedimenti sentimentalistici, concreta, sincera. Manca poco e mi convince.
Un segretario così può riconquistare un bel po’ di “moderati” atipici, a patto però che non sparisca di nuovo, che non si intiepidisca, non si afflosci per strada come stava per accadere già alla fine del programma quando la Rangeri, in un moto di riscatto, ha sapientemente tirato fuori la questione del referendum sull’acqua. Lì Bersani ha fatto un passo indietro, ha cincischiato con un fumoso “ni” che non è “no, non ci interessa” e neppure “sì, lo appoggiamo”. Ecco, da parte mia avrei preferito il piglio di prima, anche a costo di scontentare qualcuno. Bersani non vuole sostenere il referendum? Che me lo dica, e lo dica alla Rangeri, chiaro e tondo. Qualcosa tipo “niente strumento referendario, tanto più visti gli ultimi risultati. Al momento in parlamento non abbiamo i numeri per presentare un disegno di legge in materia, possiamo solo lavorare insieme per stendere al più presto una proposta decente, delle alleanze solide e vincere le elezioni”. Ad una risposta del genere potrei riconoscere delle ragioni e in ogni caso potrei fare i miei conti.
Mi si replicherà che in fondo questo intendeva Bersani. Può essere, anzi è certamente vero, solo che bisognava estrapolare il messaggio dagli sbuffi e dai ricamini in cui era avvolto, gli equilibrismi e le piaggerie reticenti che ingolfano la strategia comunicativa del partito e affaticano gli elettori come me. Per una manciata di minuti questo ciarpame retorico mi è sembrato lontano, un brutto ricordo e niente più . Il discorso di Bersani sembrava fuori dallo schema consueto, l’oscillazione tra “non detto” e “detto troppo e male” che da sempre cadenza e inquina la discussione pubblica in questo paese. Un’alternanza che richiede un continuo sforzo di decifrazione da parte di noi poveri elettori a fronte dell’irresponsabilità linguistica, prima ancora che politica delle dirigenze. Una fatica che è sempre più gravosa e rispetto alla quale le parole di Bersani sono state una ventata d’aria fresca, credibili e avvincenti perché aderenti ai fatti, alla propria esperienza di vita quotidiana, senza tutti quei fronzoli che in politica soffocano il racconto.
Peccato che alla fine del programma l’attimo fuggente fosse già passato. Spero si sia trattato di un calo fisiologico, un po’ di stanchezza a fine giornata. Non vorrei dovermi consolare col filmato su youtube per chissà quanto in mancanza di meglio, proprio ora che cominciavo a prenderci gusto …
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