Non ne posso più di questa tiritera sull’aborto che salta fuori ad orologeria sempre in prossimità di appuntamenti elettorali. Stavolta è Bagnasco, presidente della Cei, a ribadire l’agenda morale e politica del “buon cattolico”. In cima alla lista dei “delitti incommensurabili”, accanto al razzismo a cui è equiparato, si piazza di nuovo, niente popò di meno che, l’aborto. Attorno a questi due temi, in contrapposizione ad essi, il credente è chiamato a orientare il proprio voto. Il sottotesto è chiaro, anche se, tra le righe, si legge qualche timida incertezza di Sua Eccellenza, lo scricchiolio di alleanze tacite, pressoché scontate in passato, a cui oggi è necessario apporre qualche distinguo.
Il riferimento all’aborto ha un nome e cognome, Emma Bonino, la femminista radicale nemica di sempre. L’indicazione allegata è inequivocabile, sostenere la Polverini nonostante il pasticcio delle liste, evitare l’astensionismo e la dispersione del voto cattolico che favorirebbe i rappresentanti della “cultura della morte”. Quello al razzismo sembra invece il tentativo di smarcarsi, sia pur blandamente, da certe trivialità della parte amica, in particolar modo della lega, che della caccia al clandestino ha fatto una cifra distintiva. Ma il messaggio è generico e al tempo stesso sottile, spara nel mucchio, non ha un destinatario chiaramente identificabile e poi non ne parla nessuno. Capisce chi ha orecchie per intendere e così sia, nei secoli dei secoli, amen. La linea che da sempre piace ai porporati.
Mettendo da parte l’irritazione per l’ingresso a gamba tesa nella vita politica del paese, che - mi dicono – è normale (il che provoca in me ulteriori sbigottimenti). Trattenendo per un attimo il fiato, concedendo che sia così, normale, una casualità il tempismo, una coincidenza lo scontro polemico su un tema, l’aborto, spendibile contro un solo candidato per ragioni peraltro discutibili.
In quanto donna e, direi con le opportune postille, femminista, il discorso di Bagnasco produce in me reazioni più profonde. L’accettazione acritica dei suoi presupposti da parte di amici cattolici colti, raffinati, intelligenti, le concessioni di qualche filosofo in erba “moderatamente di sinistra” mi danno il colpo finale. L’aborto sarebbe un crimine al pari del razzismo, dell’omicidio e di chissà quali altre nefandezze. Qualcuno osserva che è anche peggio del razzismo, perché a quest’ultimo spesso si sopravvive, mentre con l’aborto ciò è escluso in partenza. Comunque la posizione della Chiesa è nota, non dovrebbe meravigliare nessuno, anzi ogni “buon cattolico” è chiamato a condividerla e accettarla.
Mi vien da pensare che di queste cose molti cattolici discutano poco o niente. E in effetti la materia non scalda gli animi popolari, che al dunque non ne fanno una battaglia politica. Lo testimonia il flop del movimento di Ferrara, che nessuno a tutt’oggi ha capito cos’era. Di aborto discute una ristretta cerchia di persone - gli eruditi, i teologi, i filosofi, gli specialisti di bioetica - che dovrebbero aiutare gli altri a capire le cose più oscure e invece spesso servono solo a complicare il quadro, a becchettarsi tra loro a suon di astrazioni.
E sì, perché ci vuole fantasia a mettere sullo stesso piano razzismo e aborto unificandoli nella condanna morale. A me sembrano cose molto diverse, così come mi sembra cieco, frivolo o in malafede in misura del contesto, talvolta pericoloso chi sostenga il contrario a costo di negare diversi tipi di evidenza.
Devo guardare al male prodotto per valutare i casi che ho di fronte, al fatto che dal razzismo posso salvarmi, dall’aborto no? Ma questa è un’etica di stampo consequenzialista, nella quale norme e valori si riordinano di continuo, sono commensurabili eccome. Si possono fare confronti in base alle previsioni delle conseguenze di azioni e scelte, e fare un ordinamento gerarchico tra situazioni migliori e peggiori, un ordinamento peraltro rivedibile. Se così fosse un sistema razzista che non fa morti, ma solo emarginati sociali, potrebbe essere comunque migliore non soltanto di uno che uccide su basi razziali, ma anche di uno che consente la pratica dell’aborto da cui non c’è scampo. L’allerta morale dei cattolici dovrebbe subito concentrarsi nella contrapposizione a quest’ultimo, facendo slittare in fondo al listino delle priorità la lotta alle discriminazioni razziali.
Lo so, può sembrare che sia andata proprio così in Italia ultimamente e che una spinta in questo senso sia venuta direttamente dall’alto, ma è non certamente questa la strategia argomentativa di Bagnasco e compagnia varia, gli ideologi dell’anti-abortismo. Meglio non prender per fesso l’avversario: ha letto i testi, fatto scuole buone e tutto da guadagnare da letture semplicistiche. E poi ho promesso di fermarmi in superficie, di concedere un vantaggio al mio interlocutore evitando commenti dietologici. Quella descritta prima non è la posizione ufficiale della Chiesa e in questa sede tanto basta.
E allora in che senso razzismo e aborto si somigliano? Per quale motivo fenomeni del genere dovrebbero mobilitare la coscienza del credente allo stesso modo? La risposta è davvero scontata, entrambe sono offese alla vita e alla dignità dell’essere umano, valori non negoziabili in una prospettiva morale universale che vuole dirsi cristiana davvero.
Ora, nel caso del razzismo l’applicazione del principio è abbastanza semplice e intuitiva. Non ho alcuna “ragione” per dubitare che l’altro, il diverso da me per etnia, colore della pelle, provenienza geografica e culturale, non sia in fondo uguale, un essere umano come me, una persona a tutti gli effetti. Non ho alcun diritto ad essere razzista, a prescindere dal calcolo delle conseguenze, dal male effettivo che il mio razzismo produce. Non ho neppure bisogno di credere in Dio per arrivare a una conclusione del genere, niente affatto relativista. Mi basta un po’ di esperienza, spirito d’osservazione e buon senso. Tutt’al più, volendo proprio strafare, qualche lettura, Kant ma anche gli insegnamenti di Gesù o qualche buon romanzo, a seconda delle inclinazioni e dei gusti.
Ma per l’aborto le cose sono altrettanto chiare, lineari, incontrovertibili?
In realtà in questo caso parole come essere umano e persona, così “naturali” nel precedente contesto, sembrano non calzare a pennello rivelando tutta la loro vaghezza semantica.
Cos’è di preciso l’embrione? Domanda difficile. Non ci troviamo di fronte a un intero psico-corporeo, di fatto nemmeno dinanzi a un organismo morfologicamente definito, per quanto non autonomo, che abbia già avviato interazioni sensoriali elementari con l’ambiente esterno. Nessuna individualità, neppure un indizio di coscienza. I nostri criteri ordinari per l’attribuzione di “personalità” qui perdono efficacia.
E allora perché la Chiesa non ha dubbi, l’embrione è persona a partire dal suo concepimento?
Bisogna intanto notare che non è sempre stato così. Il dibattito sullo statuto ontologico dell’embrione non è nuovo, non è il prodotto della modernità. Ne discutevano già Platone e Aristotele e la questione, riformulata in termini religiosi – quand’è che fa la sua comparsa l’anima, il tratto distintivo dell’umano, l’elemento rivelatore del divino? – si è trasferita in ambito teologico. San Tommaso, da buon aristotelico, non riteneva possibile che l’anima razionale fosse presente nell’embrione sin dall’inizio: in quanto insieme di facoltà superiori caratteristiche di una certa materia, essa aveva bisogno di una materia “formata” abbastanza, capace di accoglierla. Per questo, ne concludeva, veniva infusa per grazia divina in una fase di sviluppo dell’embrione che va dal quarantesimo giorno per i maschi al novantesimo per le femmine (e ti pareva!).
Ma queste stramberie oggi sono superate proprio grazie all’avversario di sempre, la scienza, che con la scoperta del DNA ha fornito alla Chiesa l’argomento più robusto per sostenere che l’embrione è persona da subito, ogni pratica che possa provocarne la soppressione – aborto, pillola del giorno dopo, RU486 – equiparabile all’omicidio.
Laddove l’ontologia non arrivava (né poteva arrivare), è subentrata la biologia a togliere le castagne dal fuoco. Ma, si badi, questa non è una resa incondizionata al nemico. Per gli altri temi “eticamente sensibili” come si dice adesso (quasi che problemi come il lavoro non comportino riflessioni di ordine morale), l’acredine per quei materialisti degenerati degli scienziati è tutt’altro che sepolta. Chi se ne frega se per aver ragione nel caso specifico bisogna incorrere in qualche incoerenza!
In effetti rispetto alle altre questioni bioetiche, che sembrano condividere un aspetto comune – staminali, testamento biologico, fecondazione assistita sono problemi “nuovi”, portato degli sviluppi delle tecniche mediche – l’aborto è un fenomeno a sé stante. Antica la disputa ontologica sull’embrione, vecchie come il cucco le pratiche per l’interruzione di gravidanza. Ne parla persino Ippocrate nel suo giuramento, vietandone il ricorso assieme alle terapie per il mal di pietra – i calcoli renali – e questo non perché le consideri un peccato. Il medico antico praticava un’arte pericolosa più vicina alla stregoneria che alla scienza. La sopravvivenza del paziente ai trattamenti cui era sottoposto era un evento già di per sé degno di nota. Per guadagnare una discreta reputazione bisognava tenersi lontani dagli interventi più rischiosi e invasivi. Ippocrate da buon caposcuola ne è consapevole e mette in guardia i propri allievi sulle insidie del mestiere. Prescrive loro di astenersi da quelle pratiche che mettono a repentaglio il nome di tutta la scuola, ammantando il divieto di un alone iniziatico che, come al solito, non guasta.
Risale all’epoca la biforcazione tra tradizione clinica, erudita, accademica, e pratiche terapeutiche speziali e chirurgiche, terreno di sperimentazione per figure quanto mai variegate - barbieri, macellai, norcini, cerusici, levatrici e mammane – girovaghi privi di istruzione, di procedure e regole comuni, talvolta di scrupoli. Una spaccatura protrattasi fino al XIX secolo e ancora oltre, nel caso dell’aborto sopravvissuta fino ai nostri giorni, sanata solo grazie a quella legge, la 194, di cui oggi si parla sempre più spesso a sproposito. In Italia prima di allora (e siamo nel 1978) l’aborto era illegale e clandestino, in mano a personaggi non troppo diversi dall’umanità variopinta descritta prima, a causa del cui operato chissà quanti milioni di donne, per dirla con Amartya Sen, mancano all’appello.
E qui veniamo al punto. Perché dopo tutte queste raffinate analisi, metafisiche e teologiche, sullo statuto dell’embrione, interessanti per carità, non abbiamo ancora sfiorato la peculiarità morale del problema dell’aborto. Persino l’argomento biologico, così come è recepito e usato dai “dottori” della Chiesa, parla dell’embrione come fosse situato in uno spazio sospeso, anonimo. Da questa posizione neutrale si pretende di ricavare una “soluzione” definitiva, ma il problema è proprio questo, la sua collocazione. Il suo stare “dentro” un altro essere umano, un’altra persona, una situazione che non ha un analogo in natura, per quanto la “fantasia” degli eruditi (quasi sempre uomini) si sforzi a costruire paragoni maldestri, nel tentativo di “normalizzare” il reale, di riportarlo a questioni già note. Il grande assente in questa discussione è l’altro (di primo acchito l’unico) essere umano di fatto presente sulla scena, una persona in carne e ossa, animata, “in atto” e non “in potenza”, meritevole, quanto meno, delle stesse attenzioni riservate all’esserino che si porta dentro. Non un essere umano qualsiasi - agli uomini per “natura” non capitano esperienze del genere – una donna, a cui a un certo punto può accadere di dovere scegliere per due continuando a essere una. Se lei non può decidere per lui, chi dovrebbe decidere per lei?
“Il dramma, signori, è tutto qui”, direbbe Pirandello, e proprio qui il discorso si inceppa, lasciando emergere una caratteristica del ragionamento morale, a cui teologi e filosofi smaniosi di trovare la quadratura del cerchio, non prestano la dovuta attenzione. Assente la riflessione sulla donna, assente la riflessione della donna. Non dico il pensiero di genere, in odor di eresia per Monsignore e i suoi amici. Parlo dei racconti di vita, delle esperienze, del come e perché si arriva a maturare la scelta di dire no alla propria creatura. Sarebbe interessante sentire il parere, chessò, delle suore bosniache per esempio, esperte di fede e, disgraziatamente per loro, anche di gravidanze indesiderate, chiedere loro se è così facile decidere cosa è giusto fare in quel contesto particolare. Ma le vittime di stupro sono testimoni scomode per chi è a caccia di soluzioni teoretiche. La realtà dei fatti diviene superflua, persino ostile per quest'ultimo.
Ora, si può essere d’accordo sull’esistenza di norme e valori oggettivi, e tuttavia questi ultimi talvolta (per fortuna non sempre) configgono in maniera radicale. I nostri strumenti ordinari ci vengono in soccorso, senz’altro può darci una mano la scienza, ma tutto ciò non “risolve” in maniera definitiva il problema, non lo elimina.
Per certi versi l’aborto è il classico esempio di dilemma morale, una situazione indecidibile in via di principio. Diversamente dal caso del razzismo, che in fondo è lo scontro tra diritto e prevaricazione, uno scenario che non ammette dubbi per chiunque abbia una coscienza morale, qui si scontrano due diritti e non smettono di farlo, nonostante lo scorrere del tempo e i progressi delle nostre conoscenze. Due diritti che letteralmente risiedono nella stessa persona, non possono venir rappresentati come istanze separate dinanzi al tribunale della discussione pubblica.
Non resta che rimettere la questione nelle mani del singolo che è coinvolto nella scelta, l’unico individuo che c’è, che è interpellabile in questo frangente, la donna, mettendola nelle condizioni di scegliere “bene” per sé e per l’altro che si porta dentro. Non si tratta di privilegiare i diritti delle donne contro quelli dell’embrione. Si tratta piuttosto di constatare che i diritti dell’embrione stanno dentro quelli della donna, che negando questi ultimi non si fa un buon lavoro a sostegno dei primi. Si tratta di bilanciare piuttosto che di risolvere, di mettere a punto meccanismi di aggiustamento tra istanze al contempo legittime, che non contrastino a loro volta con i principi fondamentali di integrità e autonomia della persona (nel senso ordinario in cui usiamo il termine), i fondamenti grazie a cui sono possibili convergenze tra diverse prospettive etiche e religiose e, soprattutto, declinazioni politiche delle stesse. Perdere questi criteri di orientamento comune non è un bene per nessuno, neppure per il cattolico fervente.
Passando per l’appunto dal piano morale a quello politico, proprio questo ha fatto il legislatore con la 194. Ha restituito al tema dell’aborto la sua complessità, ha garantito il diritto alla salute e all’auto-determinazione delle donne senza perciò farne una rivendicazione ideologica e aprioristica, ancorando a vincoli ragionevoli la legittimità al suo ricorso. Ha indicato una serie di strumenti di sostegno che si sarebbero dovuti realizzare, in modo da rendere possibili alternative di scelta. Insomma si è fatto carico responsabilmente di un problema complesso e ha cercato di offrire non una soluzione univoca, ma un quadro all’interno del quale le scelte dei singoli (in questo caso le donne) fossero più libere, sicure ed eque.
Una buona legge, peraltro sostenuta dal consenso popolare che si espresse a maggioranza con il referendum, una nota di merito, che, non si sa perché, agli occhi di qualcuno si trasforma in un elemento sospetto. Una legge che è rimasta in alcune sue parti lettera morta, come spesso accade in Italia, il che non dimostra affatto che fosse sbagliata. Una legge voluta da chi sostiene il diritto alla libertà di scelta e non la giustizia dell’aborto in sé e per sé. Non esiste nessuno che lo consiglierebbe a tutte almeno una volta nella vita. L’abortista è una figura fittizia inventata a bella posta per interpretare il ruolo del laico immorale. Sarebbe ora che anche il “buon cattolico”, il cattolico adulto e onesto intellettualmente se ne rendesse conto.
Sto forse sostenendo che la Chiesa non può avere un’opinione diversa in materia? In parte sì, ma rovescio la domanda e la rispedisco al mittente.
Io non credo che sull’aborto si possa fare la benché minima battaglia morale, e tanto meno una battaglia politica. La Chiesa e i cattolici la pensano diversamente? Va bene, però ci dicano in concreto cosa vuol dire questa “diversità”.
Per come la vedo io sul razzismo si possono lanciare strali da scranni e altari. Sull’aborto, che è un vero e proprio dramma della scelta, è lecito tutt’al più dare consigli, solo se interpellati e dopo aver ascoltato a lungo prestando attenzione. In ogni caso qualunque sia la scelta finale, tutte meritano un’assoluzione e un incoraggiamento. Qualche ave maria in più a chi ha riflettuto poco e questo è quanto. Non so proprio cos’altro possa fare una guida spirituale, un buon pastore.
Non basta? Non è quello che hanno in mente nei corridoi del Vaticano coloro che invocano ben altro radicalismo nella difesa della vita? E quindi cosa intendono di preciso? Che tutte le donne che ricorrono all'aborto sono moralmente colpevoli allo stesso modo a prescindere dalla situazione e dal contesto? Che è prevista la dannazione eterna per queste “assassine”? E per i medici che si prestano a tali pratiche, i farmacisti che vendono pillole mortifere, gli autotrasportatori che le portano in giro per mezzo mondo, gli operai che le inscatolano, i chimici che le sintetizzano e, al termine della lunga catena, gli uomini che le mettono incinte in chissà quali circostanze? Cosa è previsto per questi?
Dal punto di vista politico poi, l’antiabortismo di Bagnasco&co. è ancora più fumoso. Come si traduce politicamente? Che tipo di referente cerca? È stanco delle alleanze con politici baciapile, praticanti ma non credenti, la folta schiera dei Berlusconi, Casini, Mastella? Quali proposte concrete si aspetta in materia?
La vecchia tattica di piazzare il maggior numero possibile di obiettori di coscienza nei reparti e nei pronto soccorso ginecologici, in modo da rendere più complicato per le donne l’esercizio di un loro diritto, non è più sufficiente? Eppure finora ha garantito ottimi risultati: in alcune parti d’Italia è praticamente impossibile interrompere la gravidanza ricorrendo al servizio sanitario nazionale. La cosa talvolta ha avuto risvolti paradossali – medici tormentati da scrupoli nella loro attività pubblica, praticavano aborti clandestini fino al settimo mese in studi privati a Ischia e Napoli ad esempio, dimostrando di avere molto più pelo sullo stomaco di me, che con la fede non ho un buon rapporto – il che avrebbe dovuto aprire la discussione sulla moralità di tali obiezioni, ma di questo non si parla, non giova alla causa.
Mettendo da parte la questione e tornando a bomba, dobbiamo aspettarci un cambio di marcia? Si vuole tornare ai tempi in cui l’aborto era illegale? Si pensa di poter costringere le donne a partorire contro la loro volontà, trattandole a mo’ di incubatrici?
La mia impressione è che una difesa così strenua della “vita in potenza” risponda al bisogno di specificare la posizione cattolica nel presente contesto,di caratterizzare il proprio piazzamento nel mondo attuale. Tutto ciò a costo di trascurare i dati di fatto, di calpestare i diritti delle donne, delle vite in atto. L’attenzione accordata al tema dell’aborto rispecchia l’esigenza di definire una prospettiva cattolica, cosa sempre più difficile per la Chiesa al giorno d’oggi.
L’agenda morale e politica del “buon cattolico” rischia l’appiattimento su quella del “buon cittadino”. Così la battaglia ideologica si sposta su temi più idiosincratici, meno trasversali, che ridisegnano le priorità in risposta ai nuovi bisogni identitari. I pronunciamenti del Papa in visita in Brasile sono rivelatori: non la povertà, non la violenza, ma l’aborto in cima alla lista delle preoccupazioni.
Dietro a tutto ciò si nasconde un progetto, una piattaforma politica? Come dice Corrado Guzzanti quando fa Padre Pizarro, che vuol dire, che significa in concreto?
Il sospetto è che non voglia dir niente, che si agitino le acque solo per conquistare un profilo (assieme alle prime pagine dei quotidiani nazionali).
E allora Sua Eccellenza (e con lei ogni “buon cattolico”), le rivolgo una preghiera. Chiarisca i dubbi, venga allo scoperto rispondendo alle domande elencate con puntualità e dovizia di particolari.
In quel caso, stia certo, in quanto donne e femministe affileremo i nostri artigli e risponderemo punto per punto agli argomenti che avrà messo in campo. Altrimenti la smetta di scaricare i problemi della Chiesa sulle nostre spalle, ci faccia il piacere di trovare un altro collante per i cattolici e di lasciarci in pace.
lunedì 29 marzo 2010
Iscriviti a:
Post (Atom)