sabato 25 settembre 2010

Roberto Bolaño, 2666, secondo volume

Chiunque cerchi svago, divertimento, riflessione sì, ma condita da un velo d’ironia, una strizzatina d’occhio ogni tanto, può tenersi alla larga da questo romanzo.
2666 è un’opera mastodontica, eccessiva, implacabile, per certi versi mostruosa. Non di meno, se, al termine della lettura del primo volume e dopo il breve interludio di Stella distante, mi ero convinta che i romanzi brevi di Bolaño fossero meglio, quanto meno per prendere le misure, ora ho cambiato parere. Di 2666 si continuerà a parlare, ognuna delle sue 1105 pagine continuerà a parlare ancora per molto, di qui bisogna passare prima o poi. Tanto vale cimentarsi e accada quel che accada!
Per me è stata dura, ne esco stremata come dopo una lunga apnea, trasformata anch’io nel bambino-alga che salta fuori a un certo punto del racconto, quasi a ricordarmi chi sono mentre leggo, quale parte ho nella narrazione, che tutto era previsto, nulla affidato al caso, compreso il mio bisogno impellente di venir fuori a prendere aria, la disperazione ingolfata, scomposta, paonazza che mi coglie quasi subito all’inizio del secondo volume, che, poco a poco, si fa serena, a tratti persino piacevole. E alla fine (ma solo alla fine) vorrei ricominciasse daccapo. «Ancora una volta!» come le favole ascoltate da piccoli, i racconti del terrore o le dipendenze, tutte un po’ tossiche, sviluppate qualche anno più in là.
C’è un che di perverso in questa narcosi del lettore nel romanzo, e un che di prodigioso. Bello non è l’aggettivo appropriato per un libro del genere, che forse non è neppure un romanzo ma cinque, e forse non è neppure un romanzo ma una storia universale, dal percorso accidentato, faticoso, a tratti snervante, una selva di incastri, di digressioni narrative, didascaliche, enciclopediche che non vanno da nessuna parte, perché è precisamente lì che devono andare, come nei canti omerici o nell’epopea di Gilgamesh.

Torna a riproporsi la metafora dell’acqua, del racconto fiume che travolge, a ondate e reflussi, in cui è difficile stare a galla. Ne La parte dei delitti, che apre il secondo tomo, mi sono letteralmente impantanata e ho temuto di non sortirne più. I femminicidi di Santa Teresa - città di frontiera nel nord del Messico trasposizione letteraria di Ciudad Juarez dove i fatti in questione accadono davvero, sfondo narrativo della sezione precedente - occupano la scena, diventano oggetto principale del racconto. Oggetto non a caso, dal momento che di ogni singolo evento delittuoso viene offerto un quadretto sintetico e dettagliato, più consono ai toni devitalizzati, professionali e asettici, dei verbali di polizia, dei referti autoptici, delle pagine di cronaca nera. Di bozzetti, contenenti ogni tipo di atrocità, se ne affastellano un bel po’, uno dopo l’altro, centinaia fino a perdere il conto. Tanti che non do più peso alle aberrazioni che leggo, quasi non me ne accorgo, quasi non riconosco più (io, una donna) nell’ennesima morta una mia simile, un’altra donna.
La mia sensibilità si risveglia in certi intermezzi ambientati in carcere. La violenza tra maschi, descritta con dovizia di particolari, mi sembra atroce, insopportabile. Anche questo deve essere voluto, frutto di estrema maestria nella composizione e nel dosaggio, come il gusto per l’elenco, la catalogazione degli orrori, il ritmo ricorsivo, cadenzato, ipnotico, con cui Bolaño ammucchia cadaveri femminili rendendomeli indifferenti. E, tuttavia, è pur sempre noia quella che provo, e della peggior specie, d’una qualità oscena, una noia che non “dovrei” provare.

Torno a prender fiato ne La parte di Arcimboldi. Proprio quando il bambino-alga comincia ad immergersi, per me ha inizio la risalita.
Dentro questo ragazzino schivo e allampanato, che diventa uomo, gigante, sotto i miei occhi, ci stanno due guerre, una generazione, un secolo, i Mari del Nord Europa, le steppe siberiane, il deserto del Sonora, il mondo intero. Tutto condensato in un unico personaggio, un filamento flessibile, esile, lungo e stretto che proprio in virtù della sua adattabilità, del suo anonimato riesce a strisciare, a insinuarsi in situazioni incredibili, costellate da coincidenze siderali, assurde, impensate, che però non puzzano mai di finto, di forzoso o artefatto. Un anonimato il suo che non è mancanza di personalità, ma filtro, amore per il sedimento.
Con i suoi piedi enormi attraverso lande mai viste, per sbucare all’improvviso su incroci già noti, vicoli ciechi che avevo abbandonato e che ora rivelano un passaggio.
Imparo ad amare il timido omaccione, intriso di disciplina prussiana e furore rumeno, fiumi di vodka russa e gelo polare, anche per questo, perché grazie a lui tutto sembra trovare un senso, una precisa collocazione, perché in sua compagnia sembra possibile tornare indietro, rifare la strada, che è costata tanta fatica, evitando, ’sta volta, dubbi e smarrimenti.
Una bugia meravigliosa e tremenda, di cui sono saldamente convinta alla fine, tanto da aver voglia di rituffarmi subito in una seconda lettura. Il trucco finale, l’ultima ironia raffinata e crudele di Bolaño, che racconta un uomo, una storia, il mondo, ma non spiega l’arcano, che di nuovo mi porta, questa volta dolcemente, sfruttando a pieno l’incantamento del racconto, faccia a faccia con l’oscenità e l’abisso.
Chi è l’assassino di tutte quelle donne? Ora che conosco Arcimboldi, che so tutto di lui, posso veramente escludere che c’entri qualcosa? O non accade piuttosto che, avendolo visto da vicino, semplicemente non mi interessa più se sia o meno un assassino, che a viver fianco a fianco a un omicida la questione perda importanza, non significhi nulla perché, come si dice a un certo punto, anche “un assassino, in fondo, è buono”?
Questo al fondo mi sembra il nucleo duro dell’opera di Bolaño, che la letteratura è capace di tali e altre simili atrocità.

giovedì 9 settembre 2010

Nel paese Dei bendati

Caso e fortuna vanno a braccetto, anche se ovviamente non sono la stessa cosa. Non è affatto detto che un incontro fortuito sia allo stesso tempo fortunato, né i colpi di fortuna arrivano sempre per caso.
Segue poi il mediano “sorte”, più ambiguo e sfumato, privo com’è di quell’aurea positiva che di solito (ma non sempre) accompagna il termine “fortuna”, e tuttavia più prossimo a quest’ultimo che al caso.
La sorte, quella forza oscura capace di rovesciare il corso delle cose all’improvviso, senza alcuna ragione e indipendentemente dal nostro intervento, può essere buona o cattiva, radiosa o nefasta. Diversamente dal caso, ha senso, secondo Aristotele, solo per gli individui dotati di libero arbitrio o, correggendo un po’ il tiro e allargando la cerchia, in relazione a esseri viventi con interessi valutativi e capacità intenzionali.
In parole povere, a un blocco di marmo non gliene importa un fico secco di finire nelle mani di Michelangelo o sepolto per secoli nelle profondità di una cava. Che si verifichi l’una o l’altra prospettiva è, in sé, più o meno probabile, in buona parte casuale. La pietra, di certo, non festeggia né si dispera.
Per chi, invece, è addestrato a scegliere, anche solo a naso, le alternative in ballo contano eccome. Si provi a chiedere al tale che una volta perse l’aereo, proprio prima che andasse a schiantarsi, se è uguale, indifferente, un lancio di moneta e nulla più. Se è solo un caso o non è anche fortuna. E pure per un cane, scommetto, c’è una bella differenza tra una vita in canile e la convivenza con un’allegra famigliola di provincia, munita di osso e giardino, bau!

Se, dal punto di vista filosofico, il caso ha provocato e provoca scossoni e paturnie epistemiche e metafisiche, la sorte (e la sua controfigura imbellettata, la fortuna) solleva ulteriori grattacapi morali.
E già, la sorte non chiede permesso, fa saltare ogni logica, ogni argomento. Se ne infischia di aspettative e meriti, non riconosce gli sforzi di una vita per imparare a scegliere e a fare bene. Tira su e giù senza passare dal via, ignorando il percorso. Un vero e proprio scandalo, manda all’aria ogni ordine e annulla ogni volontà.
Naturale che molti sistemi morali siano stati eretti con lo scopo precipuo di imbrigliarla, di affrancarci dalla sua morsa o, quanto meno, di limitarne i danni, consolandoci delle amarezze di un destino crudele e immeritato, temperando i narcisismi e le esaltazioni che una fortuna spudorata solletica. Rigide forme di disciplina e auto-controllo affiancate a tentativi di training autogeno, depositati come relitti nei tormentoni del passato arrivati fino a noi, “quisque faber est fortunae suae” (che nella versione originale non suona proprio così, ma fa lo stesso). Tutto per sottrarre terreno alla sorte, per convincerci ad essere autonomi, il che è una bella cosa, peccato non sia del tutto vera. Non c’è codice d’onore, sobrio e frugale che sia, capace di recidere ogni legame con l’esterno, sorte compresa, e che aldunque non costi troppo, in termini di rinunce a pezzi importanti di vita e felicità. La quadratura del cerchio non c’è, e allora?
Non resta che cedere il passo alla politica, che triangola inevitabilmente con la morale personale, si incunea nella trattativa dei singoli con il mondo e con gli altri e si fa carico del problema della sorte, per cui è, o dovrebbe essere, meglio attrezzata, proprio in virtù dei meccanismi di cooperazione.

Il pensiero politico ha con ciò ereditato una diffidenza istintiva nei confronti della sorte, anzi, si può dire si sia costituito apposta per affrontarla con armi migliori. Non è forse per ridurre il numero di sorprese sgradite che i cittadini scendono a patti con il Leviatano?
Quel che talvolta sfugge è che la riflessione politica non ha grandi simpatie nemmeno per la fortuna in senso stretto, intesa come condizione favorevole inattesa e del tutto casuale. Sì, certo, Machiavelli ne parla diffusamente, ma a parte il fatto che il nostro (in teoria repubblicano) si trova a scriver trattati di realpolitik per signorotti ambiziosi e attaccabrighe, spesso e volentieri in balia della sorte. Bisogna notare che in questo caso la fortuna è l’occasione propizia che permette al principe di manifestare la sua virtù. Virtù tutta politica, che a sua volta consiste anche nella capacità di riconoscere il momento opportuno per certe scelte. Qui, circolarità a parte, il sodalizio tra caso e fortuna si allenta, connettendosi quest’ultima all’espressione di un talento che non è affatto occasionale, che anzi può assumere i tratti della predestinazione ineluttabile, di vero e proprio fato.
Come dire c’è una bella differenza tra il colpo di fortuna di Maradona che, tra le altre cose, è capace pure di cogliere l’attimo, e quella del brocco che, senza sapere come, segna il gol della salvezza.
Ora se il primo tipo di fortuna, il successo legato all’esercizio di un talento fuori dal comune - concetto insidioso, per carità, e suscettibile di scivoloni populistici - ha trovato buona accoglienza nel nucleo duro dello spirito capitalista, che, non a caso, ha sempre visto di buon occhio l’accumulazione di fortune intese come beni e proprietà, segno esteriore di un’operosità produttiva che merita il giusto riconoscimento, come spiega Weber mettendo in relazione il fenomeno con il sostrato etico protestante, sul secondo, il colpo di fortuna random, l’ostracismo è condiviso.
Non c’è nessuna teoria politica seria che si auguri, che so, che la propria classe dirigente venga tirata a sorte, senza criteri di selezione, confidando nella sola fortuna. E mentre la legittimità delle imposte sul reddito è ancora oggetto di discussione per il pensiero liberale, sull’opportunità di regolamentare le successioni, bonus del caso e nulla più, da Mill in poi ci sono pochi dubbi.
A dire il vero bisognerebbe aggiungere che, con tutta la simpatia per le fortune meritate, il liberalismo, in quanto teoria politica, si è sempre preoccupato di sottoporle a vincolo, obbligandole da un lato alla trasparenza (per il principio secondo cui meglio una lobby dichiarata che una occulta), dall’altro a rigidi meccanismi di controllo.

E ora veniamo a noi, a questa Italia imprevedibile in cui tutto si dice e niente si fa e viceversa (così a caso, a seconda della fortuna), alla cultura politica che esprime un paese che alla botta di culo ci tiene assai, tanto da dotarsi di innumerevoli ordini di figure propriziatorie, San Gennaro, Padre Pio, la Madonna di Polsi, a cui devoti ‘ndranghetisti chiedono la grazia senza neppure un leggero imbarazzo, giù fino al munaciello, allo scazzamurrill, al folletto padano. Dove scarse, invece, sono le occasioni per chi se le merita davvero. Non resta che sperare nell’intervento divino di Maria De Filippi, che, non è sempre detto, ma tante volte funziona. Eri uno sfigato, ignorante e un po’ sessista? Oggi sei il nuovo idolo del tubo catodico e domani, chissà, coordinatore nazionale del partito delle virtù. Tutto può essere in un tal contesto.
Ottimisti sempre, al di là di ogni dato di fatto, di ogni ragionevole perplessità, il motto che condensa l’odierno spirito nazionale, perfettamente incarnato dal nostro premier entusiasta e dai suoi allegri sodali, la sedicente destra liberale, che non sa o confonde la lezione dei maestri, i conservatori di una volta, i liberali all'antica, contraddistinti proprio da un pessimismo atavico, lucido, ostinato.
Si vede che dai noi guardano a più esotiche tradizioni o forse non ne seguono nessuna. Vanno alla cieca affidandosi a un’altra orba, la dea bendata, convinti che aldunque vedrà bene di star dalla loro parte.