mercoledì 24 febbraio 2010

Primavere precoci

È da un po’ che a “sinistra” sembriamo condannati a soffrire. Ci toccano solo emozioni tristi, risate amare che durano il tempo di un caffé, soddisfazioni modeste, subito incrinate da foschi presagi, da considerazioni a margine che rovinano la festa.
Il successo di Vendola alle primarie è, in questo senso, un caso esemplare. Non si può non gioire del fatto che il desiderio popolare di partecipazione attiva alla vita politica dei partiti sia prevalso sulla logica centralista (“francamente” un po’ datata) delle decisioni calate dall’alto. E però, da un punto di vista più generale, c’è ben poco da esser allegri. La soluzione al caso pugliese arriva dopo estenuanti polemiche che hanno lasciato emergere, per l’ennesima volta, i limiti di tutte le forze di sinistra.

Il pd, come sempre, ne esce malconcio. Inchiodato ad un candidato che non ama, in ansia per i riverberi che la gestione maldestra, a tratti imbarazzante dell’affaire potrebbe avere sul risultato delle elezioni “vere”, si ritrova a sbattere in quei problemi identitari che la nomina di Bersani a segretario era chiamata a risolvere. L’uomo pragmatico, dai modi schietti, il rappresentante della mozione più-a-sinistra all’interno del partito, avrebbe dovuto traghettarlo fuori dalle acque paludose del cerchiobottismo veltroniano. E invece dopo aver messo la sordina all’ala cattolico-moderata interna (tanto che i più permalosi hanno preferito abbandonare la nave), i vertici tentano la strada delle trattative con i cattolici un-po’-meno-moderati che stanno al di fuori, concedendo loro uno straordinario vantaggio, il diritto di veto all’alleanza in base a criteri personalistici oltre che programmatici. Un’idea di “convergenza politica” per niente nuova e tutta italiana per la quale si era pronti a mettere da parte lo strumento delle primarie, una delle poche trovate positive della stagione veltroniana, accolta durante l’ultimo congresso dallo stesso Bersani, boicottata di fatto alla prima occasione.
La crisi del pd è conclamata, così come le responsabilità di una classe dirigente presuntuosa e allo sbando, che pensava di rispolverare vecchi metodi dirigisti senza accorgersi, così facendo, di mettere a repentaglio l’unico capitale accumulato negli ultimi tempi, la partecipazione popolare.

D’altro canto questa non è affatto una buona notizia per “il popolo della sinistra”. Al momento il pd è l’unica rappresentanza presente in parlamento che sia pur timidamente (con l’ingombrante ipoteca del prefisso “centro-”) si può ricondurre a quell’area. Che la cosa piaccia o meno il paese va in tutt’altra direzione, da un punto di vista sociale prima ancora che politico. In tal contesto gli acciacchi del partito di Bersani, gli arretramenti delle sue posizioni si traducono inevitabilmente in un indebolimento generale delle istanze di sinistra. Ma le forze più radicali non sembrano preoccuparsene, prese come sono a ballare la rumba sulla cassa del morto. Peccato che nella situazione attuale “i cari estinti” siano loro.
Le ragioni di D’Alema saranno pure biecamente strumentali, tuttavia si basano su un semplice calcolo che difficilmente può essere contraddetto. Al momento, fatti due conti, l’alleanza elettorale con l’udc conviene di gran lunga rispetto a quella con partitini che non si sa bene se esistano, cosa perseguano e per quanto. E le cose stanno così anche perché queste stesse formazioni continuano a preferire il rituale collettivo dello scaricabarile, la lotta fratricida a colpi di distinguo verbali, la ricerca forsennata del capro espiatorio all’auto-critica, alla convergenza e l’unione su piattaforme comuni, che avrebbero dovuto conseguire già da tempo. Le lamentele sono sempre le stesse – il complotto trasversale dei partiti più forti contro le minoranze, le falle del bipolarismo e del maggioritario – su cui si può anche, in linea di massima, dirsi d’accordo, a patto di essere altrettanto seri nell’analisi delle alternative. Che il proporzionale abbia bisogno di ritocchi per correggere l’eccessiva instabilità governativa a cui è esposto è un’evidenza che in Italia dovremmo conoscere meglio che altrove. Ma a sinistra del pd simili banalità non sono viste di buon occhio: meglio star fuori dai giochi con il proprio 1% che sporcarsi le mani con la politica.

Così, tornando alla cronaca degli ultimi tempi e provando a ricapitolare, accade che Vendola, nonostante il plebiscito popolare, sia inviso ai vertici del pd, mentre parte degli elettori di quest’ultimo reclamano il suo ingresso nel partito e alcuni, addirittura, gliene affiderebbero la guida. Ferrero puntualizza al volo di essere piccato nei suoi confronti per le concessioni al pd medesimo e la rottura del fronte elettorale comune, concordato nel rispetto della “reciproca autonomia” politica, e mentre a questo punto il simpatizzante incerto, sempre più confuso e affannato, si chiede quali siano al dunque le differenze insormontabili tra i due, il nome del movimento (partito?) di Vendola si allunga un altro po’... Seguire gli arzigogoli di questa trama infinita, sempre uguale a se stessa, e, soprattutto, indovinarne il senso è impresa ardua e snervante.

Che la frammentazione interna alle forze di sinistra alternative al pd le condanni ad una totale ininfluenza è finalmente opinione condivisa tanto alla base quanto ai vertici, anche se sulle possibili vie d’uscita da questa fase di stallo si discute da tempo senza risultati. I problemi creati dalla scelta di alzare il livello dello scontro con gli ex-compagni imborghesiti, le vecchie volpi del pd, non sono invece oggetto di riflessione, pur essendo di fatto non meno incalzanti.
È singolare che tutti i protagonisti del “reality” politico della sinistra- D’Alema, Ferrero, Vendola e molti altri ancora- fitto di intrighi e veleni e molto poco agganciato alla realtà, sono figli del medesimo padre, il vecchio e nobile partito comunista. Per spiegare l’attuale fenomeno di repulsione reciproca fra le parti si potrebbe chiamare in ballo una mancata elaborazione del lutto, la nemesi storica di un passato ingombrante che si ostina a tornare. O più prosaicamente una velenosissima lite in famiglia per l’eredità.
Sta di fatto che per capirci qualcosa dobbiamo ricominciare da lì, dal parricidio che è all’origine dell’odierna tragedia.

Di quella lontana “svolta” con cui si chiuse l’esperienza politica del partito comunista i trentenni come me, poco più che bambini all’epoca, hanno un ricordo sbiadito: Achille Occhetto sfiancato, gli occhi cerchiati, il baffo risorgimentale significativamente afflosciato, attorno a lui vecchi compagni scalpitanti, in alcuni casi disperati. I più giovani non hanno memoria diretta neppure di questi rapidi flash. Tirati su nell’era berlusconiana, per le nuove generazioni il pci non c’è mai stato. Ben altre spartizioni di campo hanno segnato gli anni della loro educazione politica e se la discussione sul comunismo li ha ad un certo punto coinvolti è per come è stata riciclata nel nuovo contesto, uno strumento di propaganda vuoto ma efficace, usato spesso e volentieri dal populismo della nuova destra, che a sua volta ha alimentato le reazioni di segno opposto. La battaglia ideologica delle nuove leve si organizza da 15 anni a questa parte lungo altre categorie. Anzi sarebbe meglio dire attorno ad un’unica persona, Silvio Berlusconi, e al nuovo modo di far politica da lui imposto. È guardando a quel bersaglio polemico che sono stati distribuiti i ruoli a sinistra: D’Alema e soci i furbetti traffichini, Bertinotti e l’allegra consorteria rifondarola più bonari anche se un po’ instabili. Quel che è divenuto indecifrabile per chi non c’era è l’aria di famiglia tra vecchi compagni, le lacrime di quella fredda sera di dicembre dell’ ‘89, i motivi di frizione preesistenti al terremoto berlusconiano, messi temporaneamente da parte per ragioni di convenienza reciproca, clamorosamente esplosi nel presente contesto. Un’infezione a lungo trascurata che si è estesa sottotraccia a partire da quello strappo originario, rendendo oggi apparentemente impossibile il dialogo tra fratelli e cugini.

Eppure, si diceva, un tempo stavano assieme: tutti i personaggi in questione ne portano il segno, tutti hanno proseguito e incarnato determinati aspetti di quella tradizione comune. Alcuni - mi riferisco in particolar modo a D’Alema e Ferrero, che d’ora in poi userò come idealtipi - col tempo sono riusciti a diventare straordinari interpreti di singoli errori e difetti, che coesistevano nel vecchio partitone in una specie di equilibrio omeostatico (assieme a molte cose positive che per ora lascio sullo sfondo). In primo luogo, sul fronte organizzativo, la rigida strutturazione gerarchica degli apparati, che rese il partito diffidente e chiuso ad ogni tipo di contributo dal basso; poi, dal punto di vista ideologico, la vera e propria ossessione per l’elaborazione di un’ortodossia comunista nazionale, che mobilitò le menti migliori dell’elite culturale legata al pci in un lavoro ripetitivo e noioso di commenti e chiose a Marx e Gramsci.
A chi sia spettato cosa è abbastanza evidente. Più importanti nel presente contesto gli effetti, innanzitutto la sclerosi di vasi che avrebbero dovuto essere comunicanti, esercitati dalla sopravvivenza separata dei due vizi sulle condizioni di salute della “sinistra” tutta.

All’interno del vecchio pci tali caratteri erano come facce di una stessa medaglia, parti di una medesima strategia a cui il partito ricorse sin dai suoi esordi effettivi, nell’immediato dopoguerra, per affrontare le proprie contraddizioni interne, rese più acute dalla politica dei blocchi contrapposti calata di prepotenza dalla scena internazionale a quella italiana. La soluzione adottata, la cosiddetta “democrazia progressiva”, serviva in quel quadro a molti scopi non tutti compatibili tra loro.
Da un lato l’estrema lealtà istituzionale del partito ai principi liberal-democratici espressi in quella carta che aveva contribuito a scrivere. Un titolo di merito da far valere al momento opportuno contro le pregiudiziali anti-comuniste che tendevano ad escluderlo da ogni tavolo, a prescindere dai numeri in parlamento e dal gradimento popolare.
Dall’altro proprio il popolo comunista, i braccianti e gli operai, i lavoratori che partecipavano all’animata vita delle sezioni reclamando grandi trasformazioni. Che un po’ alla rivoluzione ci credevano ancora, se l’aspettavano prima o poi. Ed erano spinti a farlo a sentire le meraviglie raccontate dai compagni che erano stati in Russia, che avevano avuto l’onore di conoscere Stalin. E qualche cosa bisognava pure raccontare a costoro… Ecco, la rivoluzione verrà ma sarà una conquista progressiva, arriverà al culmine di quel processo democratico che abbiamo contribuito a costruire, sarà il suo esito naturale, necessario.
Per tenere in piedi due istanze a rischio di potenziale collisione c’era bisogno di una cerniera, quale venne ad essere l’apparato, la struttura capillare diffusa sul territorio, incaricata di attenersi alla linea dettata dai vertici e di tastare allo stesso tempo il polso della base.
Da qui discesero inoltre due corollari: la cronica diffidenza dei gruppi dirigenti del partito per le masse e gli eretici, per chiunque avesse voluto in qualche modo alterare dall’interno l’equilibrio raggiunto a fatica; quella nei confronti delle alternative a sinistra, configurate a lungo dall’area socialista, che avevano risolto in senso chiaramente liberal-democratico l’ambiguità che ancora segnava il partito comunista, divenendo pertanto non interlocutori, ma avversari, tanto nella corsa per la conquista di un elettorato limitrofo, quanto, soprattutto, nelle trattative e nei giochi di palazzo. A discolpa del pci si può dire che reagì ad un contesto non facile e riuscì a fare grandi cose nonostante la tensione interna, che ad ogni modo ne segnò l’intera vicenda.

Ma torniamo ai protagonisti attuali e alla spartizione di questa eredità: gli elementi che prima stavano assieme a sostegno reciproco, ora nella nuova distribuzione vengono fatti giocare l’un contro l’altro.
Chi ha portato a termine la “svolta”, il riformista col patentino qual è Massimo D’Alema, sa far di conto e per di più, nonostante tutta l’antipatia del caso, sa cavarsela con l’analisi e il ragionamento politico, cosa sempre più rara ultimamente. Peccato che dichiarazioni e commenti sagaci arrivino sempre dopo aver tentato la carta dell’accordo sottobanco, a spiegare (metter una toppa?) manovre occulte giudicate convenienti da un ristretto gruppo di saggi. Ha un bel dire Massimo che è una sinistra post-ideologica la sua, che formula proposte concrete in base alle quali costruisce alleanze. In realtà non c’è nessun accordo programmatico, siamo alle solite geometrie variabili a scopo elettorale, decise dall’alto in perfetto “old style” e pagate ad un insolito prezzo. La dieta ideologica fa subire alla trattativa una curvatura paradossale: il pd si astiene dal mettere il carico, è però pronto ad accogliere quello degli altri, a reagire all’idea di un candidato come Vendola (tutto sommato presentabile, trasversale) come neanche Don Camillo di fronte a Peppone. Insomma da queste parti “la sinistra” rischia di morir di fame.

Contro questa prospettiva, annacquata e d’apparato, insorgono gli altri, i compagni duri e puri come Ferrero. Per costoro è il partito che può alleggerirsi fino a divenire evanescente sul territorio o derogare alle coscienze dei singoli l’elaborazione di una linea comune, con la coriandolizzazione che ne consegue - ricchezza di prospettive, ci viene spiegato, mancanza di sintesi, verrebbe da dire – finché a tenerlo in piedi ci sarà un collante potente come il comunismo, il lascito del passato toccato loro in sorte. Le fusioni possibili per colmare il vuoto lasciato a sinistra dal pd sono tali solo in quel nome, l’apertura evocata all’inizio subito soverchiata dalla più urgente disputa nominalistica, un personaggio come Vendola guardato con sospetto. Bisogna ripartire dal comunismo, si dice, dalla sua attualità. Ma cosa significa in termini politici? Non è dato saperlo. Il problema non è nuovo, da sempre il pci va a sbatterci senza venirne a capo. La colpa non è soltanto sua, ma della teoria marxista stessa, strumento ineguagliabile di osservazione e critica economico-sociale, ma priva di una pars construens politica, di indicazioni di merito sull’alternativa radicale al sistema, la “rivoluzione” che pure prevede. Su quest’impasse teorica poggiano tanto le derive aberranti dei regimi totalitari, quanto le contraddizioni non risolte di una schiera di ottimi amministratori locali, uomini delle istituzioni, sindacalisti battaglieri, insegnanti e (sempre meno) operai che nella vita di tutti i giorni hanno contribuito al miglioramento di quelle istituzioni civili, “borghesi” che in quanto “comunisti” avrebbero dovuto rovesciare.

Il che ci riporta a quella fatidica notte di dicembre, allo sconcerto per “una svolta” palesemente in ritardo sui tempi (l’ ‘89 è l’anno del muro), tuttavia così sofferta da mettere immediatamente in moto un programma di “rianimazione”. Durante le cene di Natale di quell’anno i miei e i loro amici non parlavano d’altro. Zia Angela, che era comunista e per me aveva sempre ragione, quando intercettava Occhetto in tv partiva con simpatici epiteti. La cosa di per sé faceva ridere. Poi per consolarla provai a dirle: “Beh, quanto meno non vi chiamate più come quei cattivi, i comunisti che li arrestano come Ceausescu”. Mi rispose secca: “Quelli non sono comunisti, sono pezzi di merda!”
Credo di aver capito allora che ai grandi piace giocare con le parole e credere alle favole più che ai bambini. Che qualcosa in comune tra quei “comunisti” e i nostri ci fosse era abbastanza evidente. Perché chiamarsi allo stesso modo sennò? Perché tante reticenze sui misfatti degli altri, gli usurpatori indebiti di nome proprio? Seppi poi che condividevano un vuoto teorico, che ognuno aveva riempito a proprio modo finendo col trasformarsi in qualcos’altro, in un caso nel regime a partito unico, nell’altro in una forza social-democratica, e per entrambi la cosa non si doveva dire.

Oggi sarebbe tempo di fare chiarezza, di metabolizzare il lutto staccando la spina al progetto di una rinascita comunista, su cui si insiste con inutile accanimento. E invece Ferrero e la nebulosa che gli gira attorno ne fanno addirittura una pregiudiziale per l’unione, contro l’ipotesi di un contenitore di “sinistra” e basta troppo vago ai loro occhi, pur essendo di fatto costretti a definire la propria posizione in termini altrettanto generici. Il richiamo al lavoro, alle prerogative della politica in materia economica, alle misure necessarie per una più equa ridistribuzione delle risorse non è affatto sufficiente per parlare di comunismo. E d’altronde un’alternativa politica al sistema liberal-democratico, coi suoi meccanismi di controllo del potere, non c’era all’epoca del vecchio pci né tanto meno è stata inventata. In pratica si pretende di tornare a qualcosa che, in quanto tale, non c’è mai stato. Non soltanto. Presi dalla battaglia per la restaurazione linguistica del lemma “comunismo”, i rifondati à la Ferrero non hanno elaborato alcuna proposta credibile per i giovani precari, le fasce deboli a cui dicono di rivolgersi, articolata tecnicamente, presentabile quanto meno agli interlocutori più prossimi. Per arginare il neoliberismo selvaggio bisognerà mettersi di buzzo buono a pensare correttivi e strumenti d’intervento adeguati ai tempi. Anche a cercare in Marx un alleato quel che salterà fuori da questa fase di crisi non sarà in ogni caso un programma "comunista" in senso stretto. Ecco perché l’intera disputa sembra piuttosto un modo per imbrigliare un elettorato alla deriva, in primo luogo i giovincelli di sinistra come me, nelle maglie di una contrapposizione ideologica affascinate, ma vuota da cui di fatto sono già fuori, tesa soltanto a giustificare l'immobilismo seguito alla mancata "rifondazione". Se col pd la sinistra resta a digiuno, qui rischia un’intossicazione da cibo avariato.

Infine c’è Vendola, che un paio di cose sembra averle intuite: la necessità di fare i conti col proprio passato, anche quello più recente, quella di tenere aperto il dialogo con il pd, nonostante i colpi bassi. Un progetto il suo forse un po’ vago e inclusivo, che guarda a culture diverse – i verdi, l’istanza liberale dei diritti civili, la tradizione cattolico sociale – ancora non perfettamente amalgamate in un composto unitario, ma che ha tuttavia il merito dell’autocritica, dell’apertura nei confronti della società civile e lascia intravedere qualche speranza per il futuro.
Ma Vendola è solo, pertanto esposto al tiro incrociato degli avversari e al fuoco amico degli ex compagni di partito. Può fare affidamento soltanto sul suo carisma, il che talvolta purtroppo è un guaio. Nichi è abile con le parole, sa solleticare la riflessione dei suoi uditori su temi importanti con una capacità oratoria evocativa e immaginifica, ma tende a perdersi dentro le proprie costruzioni concettuali. Avrebbe bisogno di qualcuno al suo fianco, un rinforzo pragmatico, tecnico, visibile quanto lui, che invece al momento, per ragioni diverse, stenta a saltar fuori.
È solo, soggetto a tutti i rischi connessi all’eccessiva personalizzazione, che a sinistra non funziona granché e non è di per sé un bene. “Sinistra ecologia e libertà”, un nome lungo e infelice, è di fatto per tutti, molto più semplicemente, il partito di Vendola. Un’equazione che nel presente contesto va persino incoraggiata, ma che alla lunga potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, tanto per lui quanto per la nuova e ancora gracile formazione.
È solo, proprio come tutti noi, disgraziatamente di sinistra, che avremmo tanto bisogno di un partito un po’ più in forze, un partito unitario, di classi dirigenti impegnate a metterlo in piedi al più presto e invece ci toccano i movioloni da domenica sera in pieno inverno, le polemiche sulla classifica e lo scudetto. Purtroppo neppure Vendola da solo può fare primavera.

lunedì 22 febbraio 2010

Gelatinazero

In ritardo, come sempre, per il rotto della cuffia riesco a intrufolarmi tra il pubblico di Annozero. L’addetto di studio mi incastra in mezzo a tre ragazzini romani habitués del luogo, vispi e in odore di popolo viola, con cui familiarizzo subito.
Nel frattempo cominciano a sfilare gli ospiti della serata. La mascella di Belpietro, direttrice di Libero, seguita dal minuscolo encefalo che l’accompagna, Porro, anima ragionevole e felicemente minoritaria del Giornale, gli alfieri della cronaca politico-giudiziaria del Fatto, l’archivio vivente Peter Gomez e Nostra Signora dei Tribunali Marco Travaglio, Norma Rangeri, critica televisiva del Manifesto, ignota ai miei giovani vicini che invece conoscono a menadito la squadra di Padellaro. Arriva anche Vauro, l’unico a strappare applausi a telecamere spente. Si consuma il rituale delle strette di mano, delle pacche sulle spalle a cui partecipano tutti fuorché Travaglio, che tira dritto al suo posto senza dar confidenza a nessuno.
Non c’è neppure un politico, ma tanto meglio. Di solito ad un certo punto si inceppano e amen, mentre i giornalisti talvolta regalano qualche sorpresa.

Tema della puntata “la gelatina”, la paccottiglia eterogenea di appalti ordinari ed emergenze gestita dalla protezione civile coi super-poteri e le mille deroghe di cui gode. La quadratura del cerchio per un nutrito gruppo di funzionari pubblici, trasformati in veri e propri ras locali, e la schiera di imprenditori “amici”, sempre pronti a vezzeggiare la rinata corte del Re Sole con nuovi e fantasiosi omaggi in cambio di commesse statali a nomina diretta.

Un tizio ci istruisce sulle pause pubblicitarie, siamo pregati di far silenzio e di non allontanarci. Fa il suo ingresso anche Santoro, parte il conto alla rovescia e ha inizio lo show.
Il canovaccio è più o meno lo stesso di sempre. Porro è conciliante a differenza di Belpietro che parte all’attacco col suo morso ferrato. Poi però fa l’ingenuo sulle frequentazioni e i massaggi di Bertolaso, Travaglio si impunta, scatta l’accusa di moralismo e la replica piccata di quest’ultimo che minaccia di abbandonare lo studio. Santoro bacchetta tutti, ma ha in serbo le sue carte per mettere in difficoltà le anime belle. È un grande attore, come osserva la Rangeri, conosce i tempi della commedia dell’arte, non come Travaglio che sembra uscito da un melodrammone con Amedeo Nazzari.

La vera chicca della serata è l’intervista a Riccardo Fusi, un toscanaccio schietto che tra grandi risate si dice pronto a prestare il suo elicottero a chiunque garantisca appalti alla sua impresa. Esilarante! Per uno così bisognerebbe inventare qualcosa, che so, “l’Alcatraz dei famosi”.
Finalmente poi si vede L’Aquila in tv con le macerie ancora per strada, i vicoli chiusi, gli edifici storici in rovina, senza puntelli, ulteriormente provati per il trascorrere del tempo e le intemperie. Una città fantasma la cui ricostruzione chissà quando sarà possibile, visto il fiume di soldi spesi per le new town tanto celebrate dai teorici del Buon Umore, i Vespa e i Minzolini che non hanno perso a tempo a dichiarare risolta al meglio l'emergenza. Qui Santoro fa tana libera tutti, apre un varco nel muro della disinformazione televisiva sul terremoto che altri, in primis Iacona, percorreranno con maggior dovizia di particolari. Il che mi dà, ancora una volta, un’ottima ragione per continuare a guardarlo. Infine si torna alle questioni più pruriginose, le intercettazioni di un sottobosco di piccoli imprenditori e faccendieri, letteralmente a “servizio” di molti capi - giudici, amministratori, funzionari – coi loro cessi da sturare, le stanze da ripulire di resti loschi e mille altre faccende da sbrigare. Cosa non si è disposti a fare per entrare nelle grazie di chi conta. Fine della puntata, tutto regolare, proprio come da casa. Solo un po’ più coinvolgente e scomodo. Stop.

E invece, proprio quando non me l’aspetto, scatta la bagarre. Per ragioni di tempo è saltato lo spazio generazione zero, quello in cui intervengono i ggiovani dalla platea. La cosa, lo confesso, non mi è dispiaciuta affatto. Di solito a quel punto mi annoio mortalmente e mi vien voglia di cambiare canale. Ad ogni modo le reazioni sono piuttosto vivaci. Una ragazza è particolarmente infervorata, non sa cosa raccontare ai suoi al rientro. Credo venga dalla provincia di Messina, dove una melma un pelino più consistente di quella raccontata finora ha investito un intero paese, portandosi via case, cose e persone. Di questi figli di un dio minore, messo sicuramente peggio di quello toccato in sorte ai rampolli di Balducci, non parla nessuno.
Santoro si scusa, è mortificato, promette di dedicare un’intera puntata alla vicenda. Interviene anche un giovane aquilano, pacato ma risoluto. “Non doveva permettere a Belpietro di dire che le casette di Berlusconi vanno bene, che all’Aquila siamo sistemati. E la mia intervista, perché non è andata in onda? La seguo da Samarcanda, sono cresciuto con lei, ma stasera mi ha deluso.” A questo punto Santoro reagisce. “Ma se abbiamo fatto vedere le macerie e stasera la puntata era comunque dedicata ad altro.”
È vero, ma tanto non basta, la tensione si taglia con il coltello. Il ragazzo va via bofonchiando insulti contro il servizio pubblico. Nel frattempo il suo telefonino comincia a trillare, riceve messaggi all’impazzata. Tutti gli amici che hanno seguito il programma da casa, infuriati più di lui.
Mentre cammino verso l’uscita mi torna in mente l’osservazione di Santoro sulla gelatina, un ambiente torbido a tal punto che non è più possibile riconoscere i buoni e i cattivi, fare distinzioni tra diversi gradi di responsabilità. L’impressione è che questa melassa ci stia inghiottendo tutti.