martedì 12 gennaio 2010

Roberto Bolaño, 2666

Un anno fa, mese più mese meno, in una conversazione telefonica con un amico che purtroppo non vedo mai, tra novità e aggiornamenti personali, chiacchiere sparse, disordinate e incoerenti, salta fuori la dritta, “2666, Bolaño”. Ne prendo nota su un foglietto, cosa perfettamente inutile dal momento che all’indomani della mia innocente “scoperta” mi ritrovo a inciampare nel romanzo e nell’autore in questione dappertutto, terze pagine dei principali quotidiani, recensioni su riviste che coltivano ancora qualche timida pretesa culturale, vero e proprio proselitismo sul web più agguerrito e informato. Diffidente nei confronti dei fenomeni letterari di massa, forse, più realisticamente, punta nell’orgoglio per essere arrivata a Bolaño così tardi e solo dietro suggerimento altrui, lascio sedimentare la curiosità, mi trattengo ignorandolo in libreria per un bel po’. Fino a quando mi sembra di nuovo possibile raccontare a me stessa, con un minimo di credibilità, di essere io a scegliere questo romanzo e che lui si presenta a me quando i tempi sono maturi per il nostro incontro. Un meccanismo cervellotico, che riflette a sua volta un sentimentalismo egocentrico, infantile e stucchevole, lo ammetto. D’altronde con Bolaño è la mia prima volta.

Com’è andata? Un libro complesso, difficile. Eppure senti che è importante, che non puoi arrenderti, che devi andare avanti. Anche quando il muro d’acqua di questa storia complicata ti si rovescia addosso sommergendoti, perdendosi in mille rivoli che fatichi a seguire, impegnata, come sei, a restare a galla.

Un’ossessione letteraria, la ricerca di un enigmatico scrittore di cui si sono perse le tracce da tempo. Pochi gli elementi da cui partire: voci che potrebbero rivelarsi infondate, una descrizione sommaria, neppure una foto. Tutto converge verso Santa Teresa, una città desolata dello stato del Sonora in Messico, degna di nota solo per il fatto che lì accadono strani omicidi: giovani donne rapite e assassinate, non si sa da chi, non si sa perché. Attorno il deserto, la terra di mezzo, la frontiera in cui tutto sembra destinato a rimanere irrisolto, dilatato, sospeso.

Brevi flash di una trama intricata che non provo neppure a riassumere. Ogni quadro ha vita a sé stante, in ciascuno di essi lo sguardo si perde come in una pala d’altare o in quei libri per bambini con i diorami, le figurine di cartone che saltano fuori dalla pagina. Dettagli laterali, lasciati lì quasi per caso, rivelano talvolta l’incastro. Per il resto l’unità del racconto è affidata, direi, ad una tonalità di luce, tenue e rarefatta, per niente lieve o confortante, che disegna contrasti netti lasciando le cose in penombra. Sole che non riscalda, alone opalescente che si diffonde a partire dall’ombra, via via sempre più sinistra, dello scrittore scomparso. E arrivi alla fine, che fine non è, in un crescendo nevrotico, che è parte della storia e monta in te che stai leggendo. Nessun mistero risolto, neppure una risposta agli enigmi che anzi riverberano in questo gioco continuo di lampi improvvisi, di salti apparentemente definitivi, che rivelano nessi con cose lontane o che saranno, proprio quando non te l’aspetti e poi ancora non appena ti illudi di essere sulla buona strada, a rovesciare i piani attraverso “innocenti” cambi d’angolazione.

Insomma finisce il libro ma non hai la benché minima idea di come vada a finire la storia, il che forse è normale dal momento che il volume in questione raccoglie solo le prime tre parti del romanzo fiume di Bolaño, a cui seguono le ultime due (?) raccolte in un altro tomazzo che devo prontamente comprare. Sarà…la mia sensazione è che molto poco “si concluderà” nel senso tradizionale del termine e che continuerò a godermi quest’opera straordinaria con la frustrazione di non aver risposta alcuna, di continuare a rimbalzare da un piano all’altro, di ipotesi in ipotesi, di dubbio in dubbio, accompagnata solo da questa luce fredda e inclemente che getta nuovi squarci su tutto e tutti. Il peso di questa insoddisfazione e il fastidio, epidermico e tutto personale, per i romanzi eccessivamente lunghi e complicati sono tuttavia compensati dall’incanto dei dettagli – personaggi indimenticabili, che si affacciano e non tornano più, dialoghi, descrizioni, singole frasi – dallo stupore del “come ha fatto? non si può spostare una virgola, non si può dire meglio!” che molto spesso, quasi distrattamente, Bolaño regala. Quell’esperienza inconfondibile che si prova leggendo chi è capace di scrivere.