sabato 12 dicembre 2009

Il Nobel conteso

E veniamo al bestiario di sinistra con le sue inconcludenze, le confusioni, la logica binaria che spesso contraddistingue tanto la classe dirigente (o quel che di essa rimane dopo la sonora sconfitta del 2008) quanto i rivoli sparsi del suo elettorato, gli “esuli” come li chiama Diamanti, che non votano o votano con il naso tappato, perché orfani di un punto di riferimento politico, che si occupi della loro rappresentanza.
Sto per dire cose che mi renderanno antipatica anche agli amici, quindi metto le mani avanti: in questa massa “liquida”, eterogenea mi colloco anch’io, con tutto le incertezze e le oscillazioni del caso. Non voglio far la “maestrina” e indicare soluzioni, anche se mi permetto qualche giudizio, pratica, a mio avviso, di per sé né scandalosa né derogabile (bisogna, al dunque, pur dire cosa si pensa per dar vita ad una discussione).

Parto da qualche breve antefatto per inquadrare il mio punto di vista, che si delinea, anche per me, non come un vero e proprio ragionamento, piuttosto come una procedura indiziaria, il profilarsi di dubbi e perplessità a partire da prove marginali, piccoli tasselli che a poco a poco compongono un quadro.

Quando Rossi e Turigliatto minacciarono di far cadere il governo Prodi, una maggioranza che si reggeva per un pugno di voti al Senato, sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero, ricordo che mi sembrarono pazzi, in preda ad un utopismo onirico che li collocava fuori della realtà. Roba da delirio mentale, totale perdita di rapporto col mondo, di sensibilità al contesto (interno ed estero), al quadro storico. Soprattutto nessuna dimestichezza con la sfera politica, con questioni come il diritto internazionale, i vincoli diplomatici, il gioco di equilibrio di opportunità strategiche (e non tattiche) che essa comporta, il bisogno continuo di riflessione su temi che non si possono liquidare con una filosofia delle quattro parole, “no alla guerra senza se e senza ma”, ideale di per sé nobile, che andrebbe promosso (concretamente) a livello sociale, ma politicamente vuoto.

In generale chi fa politica (o se ne interessa) ha il dovere di interrogarsi su questioni come la guerra, sulle condizioni che la giustificano come extrema ratio, sui modi possibili per evitarla e sull’equità di tali alternative. Non può semplicemente puntare i piedi e dire no. Ha sbagliato mestiere. Piacerebbe a tutti che la guerra sparisse con un gioco di parole, ma un po’ di sano realismo politico insegna che il pacifismo da solo non basta. Lascio parlare Bobbio, che certamente lo spiega meglio di me. “Se tutti gli stati del mondo disarmano tranne uno, questo diventa il signore della Terra. Quando si entra nella sfera politica, non si può prescindere da un minimo di realismo. Il disarmo unilaterale favorisce i violenti. Questo è il problema che i pacifisti radicali devono sciogliere: sino a che tutti gli uomini, dico tutti, non saranno non violenti, non solo la non violenza non otterrà il proprio scopo, ma rischia di rendere un servizio ai violenti, per i quali è più facile dominare un mondo di non violenti che un mondo di altrettanto violenti come loro. Il paradosso della non violenza è che incoraggia la violenza dei violenti.” Questo, per me, è un dato di fatto (non il solo per fortuna a comporre la sfera del politico). Ora, una forza che si vuole politica, come Rifondazione, può semplicemente liberarsi di esso, non elaborare la questione in contesto, dandola per risolta in via di principio, “senza se e senza ma”, una volta per tutte? Non credo.

Quando Obama si è candidato alle presidenziali non mi è piaciuto subito. Cresciuta a pane e dietrologie, politicamente diffidente per natura (il che spesso si è rivelato cosa buona), mi insospettiva l’ondata di entusiasmo collettivo per un tizio troppo patinato e telegenico per essere vero. Bello come Denzel Washington, osannato come Marthin Luther King, molto sospetto per me. Alla lunga, però, Barack mi ha convinto. Non sono un’obamiana fanatica, ma riconosco che è intelligente e in gamba, parla chiaro, persegue obiettivi condivisibili, ha effettivamente rinnovato il panorama politico americano e in parte anche quello sociale, risvegliando un interesse per il dibattito pubblico, collettivo, intorpidito da tempo. Rappresenta una svolta (sia pur limitata) anche per lo scenario internazionale, rispetto ai piani dell’amministrazione Bush, che sulla guerra avrebbe insistito ancora a lungo, esportandola anche altrove. Due le tappe decisive per la crescita del mio personale gradimento nei suoi confronti: il discorso all’Università del Cairo, diretto al mondo islamico, e quello al Congresso, sulla riforma sanitaria. Tutte e due le volte Mr. Obama mi ha letteralmente incollato al video: non è stato reticente, ha argomentato con straordinaria efficacia, ha prospettato soluzioni realistiche, ha evitato fronzoli e melassa, non ha lesinato critiche pungenti ed è stato capace di mettere (quanto meno provvisoriamente) tutti d’accordo. Ha strappato applausi su entrambi i fronti, ragionando come non si sentiva da tempo. In poche parole molto meglio di quel che ha fatto Denzel nei suoi film, impensabile, fino a poco tempo fa, nel mondo reale.

Tuttavia si tratta pur sempre di discorsi, di parole e poco più. Come recita l’adagio “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Bisogna stare in guardia e non lasciarsi prendere da facili entusiami. E qui arriva il Nobel sulla fiducia, imprevisto, immaturo, immeritato. Concordo, anche se bisognerebbe ricordare che Obama non se l’è assegnato da solo. In ogni caso le cerimonie e i festeggiamenti per il premio s’incastrano singolarmente (sarebbe meglio dire cozzano, fanno a pugni) con la decisione di inviare considerevoli rinforzi in Afghanistan, altri 30.000 uomini nei prossimi mesi, il che tinge tutto di un alone surreale. E anche su questo sono, in parte, d’accordo.
Ma qui scatta il rovesciamento e cominciano a fioccare da più parti a sinistra (in Italia s’intende) critiche rancorose tra quanti un tempo erano, per lo meno, fiduciosi, se non proprio fan. Obama è un traditore, una marionetta, un imbroglione come gli altri, un bluff.
Per me la questione diventa in tal modo ideologica, irriflessa, inceppata dalla logica binaria delle grandi alternative (rosso o nero, tutto o niente), capace solo di slogan e poco più. Che il Nobel sia immeritato è un fatto (chi legge “Doonesbury” ne ride da un po’ in mezzo mondo). Che Obama non sia il salvatore dell’umanità, che il mondo, all’indomani della sua elezione, non si sia improvvisamente trasformato (e in meglio), che il presidente degli Stati Uniti si muova all’interno di vincoli precisi, operando in un contesto, pregresso, predeterminato e da lui, in buona sostanza, indipendente, è un altro fatto.

Il che ci riporta alla questione della guerra in Afghanistan, che è poi il motivo principale delle critiche a lui rivolte. La guerra al momento è un grande fallimento, il rapporto del generale Petraeus parla chiaro. Non avrebbero dovuto aprire un altro fronte in Iraq, distraendo forze da lì; così i talebani hanno ripreso il controllo di gran parte del territorio, applicando ritorsioni sommarie contro i civili inermi, i traditori e le traditrici che si sono messi in fila per votare o per andare a scuola (da stragi e attentati a ripicche più “fantasiose” e sadiche, come lo stupro o l’acido in faccia). Il governo locale è corrotto e per niente autorevole, incapace di garantire diritti minimi alla popolazione locale, quali sicurezza, istruzione o sanità. La ricostruzione non è neppure iniziata. L’esercito americano, pochi uomini distribuiti a macchia di leopardo, con tecnologie fin troppo grandi e ingombranti per non essere bersaglio di imboscate, così può veramente poco contro l’agile ed esperta guerriglia talebana. Questo lo scenario che fa da sfondo alla decisione di Obama. Forse si avvia verso un nuovo Vietnam, ma certamente non può non tener conto di questo quadro.

Si può discutere a monte della scelta di far guerra all’Afghanistan all’indomani dell’11/09. Certo non siamo andati lì per scopi umanitari, per filantropia o amor di giustizia. Ci sono enormi interessi dietro, è probabile che l’attacco fosse pianificato da mesi, molto prima del crollo delle due torri. Possiamo riesaminare il caso dalle più svariate angolazioni, ricostruire l’ordine degli accadimenti, rivedere cronologia e scenari, scrivere una storia più vera. Ma l’argomento contro le “ragioni” della guerra di Bush è davvero così decisivo per determinare cosa fare in questo momento? O la situazione che emerge dai rapporti (non soltanto quelli governativi ovviamente) non è comunque preoccupante, degna di analisi, tanto da parte della politica internazionale quanto di quella nostrana e dei cittadini stessi, specie quelli politicamente attivi, come ho l’illusione di credere siamo a sinistra? Non sarebbe il caso di abbandonare qualche formula affrettata e cominciare a ragionare sui fatti?

Con questo non voglio dare ragione ad Obama, finendo con l’essere più realista del re. Semplicemente credo che prima di sostenere che il ritiro sia l’unica strada, perché siamo di fronte ad una sporca guerra, che in quanto tale è sempre ingiusta…insomma prima di fare astrazione, parlando in generale e buttandola, di fatto, in casciara, dobbiamo discutere del caso concreto. E allora bisogna davvero impegnarsi per dimostrare che il ritiro, adesso, è “più giusto”, moralmente e politicamente, producendo argomenti solidi a sostegno di questa tesi.
Io ho molti dubbi che una tale impresa riesca, non ho soluzioni e l’intera faccenda mi sembra un guazzabuglio. Sbagliata (e in malafede) la scelta di Bush, poco convincente l’idea di dire ora “Ci siamo sbagliati, abbiamo distrutto qua e là, non facciamo in tempo a rifare strade, ponti e ospedali, vi lasciamo nelle mani di amabilissime personcine, quali sono i talebani, con qualche calcinaccio e molta miseria.”
Con tutto questo sproloquio voglio soltanto suggerire alla “sinistra a sinistra”, a Rifondazione e agli “esuli”, di tornare a confrontarsi con il mondo reale, che spesso è problematico, talvolta (per fortuna non sempre), specie in relazione a cose complesse come la guerra, tragico e irrisolvibile, prima di passare agli schemi, alle sintesi e ai rovesciamenti. Prima di cedere alla tentazione degli slogan, alla rapida trasformazione degli amici in avversari di paglia, operazione che spesso fa il gioco del nemico reale. Insomma di ri-appassionarsi alla politica, di lavorare di immaginazione, senza fermarsi mai ai luoghi comuni, alle frasi fatte, anche quando le abbiamo fatte noi. I confini del “giusto” si spostano di continuo: i principi sono importanti, ma si applicano sempre in contesto.

venerdì 11 dicembre 2009

L'Europa che non c'è

Dopo gli improrogabili impegni di politica estera, che lo hanno portato ai 4 angoli di mondo, dall’Arabia Saudita alla Bielorussia di Lukashenko, e ne hanno legittimamente (?) impedito la presenza in aula, in quei tribunali che lo attendono da tempo ma in cui non ha nessuna intenzione di comparire, Berlusconi sferra l’ennesimo attacco agli organi di garanzia e controllo del nostro povero ordinamento democratico dinanzi ad una platea internazionale, il congresso del partito popolare europeo in corso a Bonn.

Poche le novità per noi italiani, che in 15 anni ci siamo più che abituati alle litanie sui giudici comunisti, l’uso strumentale e politicizzato dei processi, l’avvelenamento culturale e mediatico di cui è responsabile certa sotto-cultura di sinistra, a cui piace enfatizzare inesistenti legami tra mafia e politica, da ultimo attraverso inutili fiction come “La Piovra”, i cui autori andrebbero “strozzati” per il clima di sospetto e le falsità che hanno messo in circolazione. Tutti argomenti, peraltro, non nuovi, già avanzati da illustri predecessori quali Totò Riina e Michele Greco, che pure si scagliava contro i “filmi” come “Il Padrino”, vera fonte di corruzione e di ogni male. Quel che si può dire è che ancora una volta Berlusconi non mente, non si nasconde né si sottrae. Non vuole andare a processo, ritiene che il consenso di cui gode lo esoneri da questi fastidi, è pronto a cambiare la costituzione, anche da solo se necessario, e sa che la sua maggioranza, per quanto lacerata, saprà scendere a patti. Fini non lo impensierisce, anche questo è chiaro. Il botta e risposta di queste ore lo conferma. A Gianfranco Berlusconi fa sapere che non deve chiarire un bel niente: è stanco, furioso, scatenato, non sente ragioni ed è pronto a tutto.
Che la situazione sia delicata e pericolosa, come mai prima d’ora, è evidente. I nodi stanno venendo al pettine, impossibile derogare ancora il faccia a faccia con i giudici, schivato fin qui con strumenti ad hoc non più sufficienti.

E qui entra in ballo l’Europa.
Il vero e proprio coup de theatre del nostro istrione, l’unica novità rilevante delle ultime dichiarazioni, trite e ritrite nei contenuti, è il contesto internazionale in cui sono state proferite. Il che suona, ancora una volta, come un sinistro avvertimento sulla serietà delle intenzioni che le animano. Le reazioni a caldo? Sorrisi imbarazzati, risate per l’uso di espressioni un po’ forti, che hanno creato qualche problemino agli interpreti, applausi divertiti, un “no comment” della Merkel, una difesa d’ufficio del presidente del Ppe Martens, incardinata proprio sull’argomento della maggioranza e del consenso di cui gode Berlusconi.
In poche parole la solita reazione timida e deludente, che sembra condannare la politica europea ad una navigazione in acque basse, stagnanti, in cui conta più l’aderenza ad etichette di maniera che l’elaborazione di norme e principi comuni. L’Unione Europea è un organismo internazionale che non decolla, impantanato in questioni di mera ragioneria, che nessuno, in realtà, vuole far decollare. È possibile che la politica estera di un singolo stato, come l’Italia, sia così svincolata dagli orientamenti comunitari? È possibile che Berlusconi dichiari in Arabia Saudita che la vita parlamentare è faticosa, spossante, talvolta inutile, che lodi un leader come Lukashenko per il consenso popolare che ha saputo meritare, senza che questo provochi alcun pronunciamento a livello europeo? Ed è infine possibile fare discorsi come quello di ieri, infangare i principi e le istituzioni di uno stato di diritto (di qualsiasi stato di diritto), minacciare soluzioni estreme non previste dagli ordinamenti costituzionali, personalizzare un dibattito che avrebbe dovuto essere istituzionale ed internazionale al tempo stesso, senza che questo provochi una reazione un po’ meno ambigua e reticente delle risatine e dei no comment?
Il tempo è passato, l’Unione europea ha organi ufficiali, sedi, protocolli, ma è ancora un ircocervo, un animale strano, che non si sa bene come viva e a cosa serva. Ogni tanto qualcuno, che so un giornale, l’Economist, si scandalizza per la situazione italiana e prende le distanze, ma a livello istituzionale tutto tace. Viene il sospetto che, in fondo in fondo, Berlusconi piaccia anche all’estero, proprio come a Churchill Mussolini stette a lungo simpatico.